UN IMPERO A RISCHIO DI BANCAROTTA ( dal Blog di Valdo Vaccaro)
Un importante articolo del professor Tish sull’America odierna
Lawrence A. Tish, professore di storia ad Harvard e autore di The ascent of money (l’ascesa della moneta), ha scritto pure un importante articolo su Newsweek del 7 dicembre 09. Un articolo che non piacerà di sicuro a Ben Bernake, presidente della Federal Reserve (succeduto a Greenspan), e tantomeno piacerà a Paul Krugman, preso pesantemente di mira. Non piacerà cioè ai due pilastri americani del pompaggio di denaro facile e abbondante nella stitica economia americana.
I giochi non si fanno a Roma ma oltre l’Atlantico
Un pezzo davvero formidabile per comprendere in sintesi i dubbi, le prospettive, il futuro dell’America, ed anche quello del mondo intero. Non solo dal punto di vista strettamente economico e finanziario, ma pure da quello etico, ambientalistico e salutistico.
E’ per questo che ho deciso di tradurlo, di sintetizzarlo ed interpretarlo, facendo attenzione a non modificare di una virgola e a non travisare in alcun modo il pensiero dell’autore.
E’ fondamentale per noi italiani capire cosa succede al di là dell’Atlantico, e fare un po’ i conti in tasca a chi ci sta manovrando a bacchetta.
Uno spaccato chiaro e dolente sull’economia americana
Lo scopo di Tish è di presentare uno spaccato ecnonomico-finanziario-politico-strategico sulla situazione del’America di oggi, qualcosa che nemmeno rovistando tra le carte segrete della CIA si riuscirebbe a capire meglio. Chi ha poca pratica di cose economiche potrebbe trovarlo a tratti difficile, complicato, cervellotico e noioso. Ma, nell’assieme, l’articolo racconta fatti interessanti e comprensibili anche per chi non bazzica l’economia.
Un invito alla prudenza e alla morigeratezza, ricordando Franklin
Tish se la prende giustamente coi keynesiani di oggi, pronti a spendere di più e a indebitarsi di più senza limiti, pur di far marciare l’economia americana, in linea poi con quanto usava dire con prudenza e saggezza il grande Benjamin Franklin (He that goes a-borrowing goes a-sorrowing, ovvero chi va avanti a prestiti va avanti a disgrazie).
Una dura polemica coi keynesiani spendaccioni dell’amministrazione Obama
Aggiungo che l’articolo di Tish rappresenta evidentemente le vedute contrapposte a quelle adottate dalla presente amministrazione e quelle del presidente della Federal Reserve, Ben Bernake, che la rivista Time ha nominato Person of the Year, proprio per il ruolo fondamentale e strategico che Bernake ha giocato al culmine della crisi finanziaria del 2009.
E’ presto per dire chi ha torto e chi ragione in questa diatriba tra keynesiani e non-keynesiani.
Per capire la geologia studia i terremoti, per capire l’economia studia le depressioni
Lo stesso Bernake riconosce come la Federal Reserve stia subendo una notevole pressione da parte della politica. E ammette che, prender cura del sistema bancario e finanziario con visuale di lungo periodo comporti spesso azioni drastiche e impopolari, che ti rendono pure antipatico e odioso agli occhi della gente. Una delle massime di Bernake è la seguente: Per capire la geologia studia i terremoti, per capire l’economia studia le depressioni economiche.
Islanda, Irlanda e Inghilterra, guardate dall’aereo
Se voli sull’Atlantico di oggi, in un giorno sereno e senza nuvole, puoi renderti conto geograficamente di cosa significhi crisi finanziaria a diversi livelli.
Da una parte la minuscola e insignificante Islanda, e un po’ più a Sud appare la modesta e blanda Irlanda, con a fianco la già più consistente isola britannica.
Crisi economiche, crisi bancarie e crisi fiscali, subite in modi assai diversi
Tutte terre ben delineate e di gran lunga inferiori dimensionalmente alla vasta realtà americana.
In queste quattro realtà economiche la crisi economica ha colpito con la medesima forza, sostanziandosi in una massiccia crisi bancaria, seguita da una massiccia crisi fiscale, con governi pronti a intervenire mediante provvedimenti di modifica e di sanatoria, operando forti interferenze sul mercato finanziario privato.
Sono le cifre dell’America a condizionare la realtà mondiale
Ma le dimensioni contano molto, e rendono tali crisi superabili o disastranti a seconda del paese.
Le perdite derivate da questo crack sono infatti molto più gravi per i paesi piccoli, visto che essi non hanno le spalle protette da un PNL (prodotto nazionale lordo) enorme e malleabile come quello americano. Le cifre americane della crisi sono molto più appariscenti, dal punto di vista numerico.
E poi, francamente, chi se ne frega se Islanda e Irlanda parlano di collasso fiscale.
A soffrire di tali disgrazie saranno gli isolani di quei due paesetti marginali, mentre il mondo andrà avanti come sempre per conto suo.
L’egemonia economica non può prescindere da quella militare
Se però a soccombere alla crisi fiscale fossero gli USA, come un crescente numero di esperti teme, allora l’intero equilibrio del potere economico globale potrebbe cambiare in modo drammatico.
Chiama gli USA come vuoi, superpotenza, egemone o impero ma, in ogni caso, la sua abilità di gestire al meglio le sue finanze è strettamente legata alla sua capacità di restare al potere come potenza militare globale.
L’insegnamento di Keynes
John Maynard Keynes (1883-1946), teorico dell’intervento correttivo statale e dell’inflazione controllata, non esitò a spingere le contee e le municipalità americane a inventare anche lavori inutili e ridicoli durante la crisi del ’29, tipo far scavare delle buche lungo la strada a una squadra di operai, e farle semplicemente ricoprire di terra da quelli del turno successivo.
Far lavorare la gente insomma, giusto per tenerla impegnata e dargli una paga di sussistenza.
I keynesiani cantano vittoria con troppo anticipo
I discepoli odierni di Keynes sostengono che l’aumento del debito federale di circa un terzo, attuato dalla presete amministrazione, è stato indispensabile per evitare una seconda grande depressione tipo quella del ’29.
Può anche essere che 1 US$ di spesa governativa si trasformi in domanda aggregata ben più vasta, in una specie di moltiplicazione biblica dei pani e dei pesci. Ma la critica sta dicendo che i benefici degli stimoli fiscali sono stati sopravvalutati e che il magico moltiplicatore è trivialmente piccolo ed insignificante.
Le prime cifre parlano di crescita sostanzialmente più bassa del previsto
Diamo pure credito ai fautori dell’intervento statale. Le cifre positive di crescita USA del terzo quadrimestre 2009 sarebero state di sicuro più basse senza la spesa governativa.
Una quota tra la la metà e i due terzi della crescita USA nel PNL è attribuibile ai piani statali di supporto al credito, e di sussidio agli acquirenti di una prima casa.
Ma siamo tuttora ben lontani da un recupero autosostenibile.
Le cifre del terzo quadrimestre, che parlavano di una crescita del 3,5% sono appena state ritoccate verso il basso al 2,8%. E questo non sorprende nessuno.
Lo stimolo governativo risulta in ogni caso lontano dal deficit che intende coprire
E’ noto che, per rendere operativo uno stimolo, serve un contemporaneo cambio radicale nella politica creditizia da parte del settore pubblico.
Dal momento che il governo federale stava già operando in deficit, e dal momento che i singoli stati stanno già aumentando le tasse e tagliando le spese, la misura reale dello stimolo è vicina al 4% del PNL. Un 4% che, suddiviso nel triennio 2007-2010, risulta ben lontano dall’attuale deficit americano dell’11,2%.
Trattasi del più grosso deficit mai visto negli ultimi 60 anni.
Di molto superiore alla situazione bellica del 1942.
Andiamo pure ad analizzare il costo di questo mutato stimolo.
Il deficit per l’anno fiscle 2009 risulta essere superiore a 1,4 trilioni di US$, circa l’11% del PNL, secondo il CBO (Congressional Budget Office).
Parliamo del più grosso deficit mai visto negli ultimi 60 anni di storia americana, più grave persino del deficit del 1942 che era un anno di enorme finanziamento bellico.
Un deficit di guerra in tempo di pace, insomma.
Non è il caso di paragonare Iraq e Afghanistan alla Seconda Guerra Mondiale
D’accordo che abbiamo l’Iraq e l’Afghanistan, con significativa presenza di truppe in quelle regioni, ma parliamo di conflitti regionali, non certo paragonabili a una guerra mondiale.
Conflitti regionali che hanno dato, tutto sommato, un modesto contributo alla presente tempesta fiscale americana, assorbendo l’1,8% del PNL, volendo prendere per buone le stime cumulative pubblicate dall’economista Joseph Stiglitz nel febbraio 2008.
Cifre in aumento peggiorativo
E, nota bene, quei 1,4 trilioni di dollari sono solo una cifra iniziale di partenza.
Secondo le recenti proiezioni del CBO, il deficit federale declinerà dall’11,2% del PNL di quest’anno (2009) al 9,6% del 2010, al 6,1% del 2011, e al 3,7% del 2012, continuando a stare sopra il 3% negli anni a seguire.
E tutto questo riguarda il deficit di bilancio, ovvero la differenza tra uscite ed entrate statali.
Non si vede fine all’indebiotamento statale americano
Va segnalato però che, nel frattempo, il debito totale assunto dalla stato in dollari aumenta dai 5,8 trilioni del 2008 ai 14,3 trilioni del 2009, vale a dire dal 41% al 68% del PNL.
In altre parole non si vede all’orizzonte una fine a questa tendenza all’indebitamento statale.
A meno che non si taglino le spese o si aumentino sostanzialmente le tasse, non ci sarà mai nel prevedibile futuro un bilancio statale equilibrato e onesto.
Cifre da fare spavento
Ipotizzando che io viva altri 30 anni e segua i miei nonni che finirono nella tomba a 75, arriverò all’anno 2039. A quel punto, il debito federale, seguendo le proiezioni del CBO, avrà raggiunto il 91% del PNL.
Niente di cui preoccuparsi, rispondono gli economisti spendaccioni tipo Paul Krugman.
Nel 1945 la cifra era addirittura a livello 113%. Questi discorsi non mi convincono.
Troppo grandi le differenze tra gli USA del 1945 e gli USA del 2039.
Il cancro del debito pubblico non potrà mai declinare
Consideriamo pure lo scenario prospettato dal CBO, il debito potrebbe toccare il 215% nel 2039.
Ciò significa più del doppio della produzione totale annua dell’intera nazione americana.
La crescita annua prevista del PNL secondo il CBO sarà del 2,3% per i prossimi 30 anni.
L’implicazione è pertanto chiara, e ci garantisce che, sotto nessun plausibile scenario, il cancro del debito pubblico americano declinerà.
Assicurazioni e sistema sanitario
Un altro buon esercizio è quello di calcolare il presente valore netto delle Assicurazioni Locali (Social Securities, prive di fondi a copertura) e del sistema sanitario (Medicare System).
Una recente stima valuta tutto questo a 104 trilioni, ovvero 10 volte il debito dello stato federale sopra accennato.
Non sudate, calmatevi! rispondono i keynesiani, Possiamo finanziare facilmente quella cifra di
1 trilione di US$/anno di nuovo debito governativo.
L’esempio drammatico del Giappone è sotto gli occhi di tutti
Ma, se guardiamo a cosa è successo in Giappone, c’è poco di che stare allegri.
I privati proprietari di case, e le istituzioni finanziarie private, hanno finanziato l’esplosione del debito pubblico nipponico (oltre il 200% del PNL) durante le due decadi perdute di crescita zero, iniziata col 1990. E in America siamo messi ancora peggio.
Scarso interesse della gente per i fondi pubblici
I privati americani hanno venduto Buoni del Tesoro su scala massiccia nel secondo quadrimestre del 2009, mentre gli acquisti di Mutual Funds sono stati modesti (142 miliardi), e gli acquisti di Fondi Pensioni e di Fondi Assicurativi sono stati addirittura triviali (12 miliardi e 10 miliardi rispettivamente).
La chiave di tutto è rappresentata dunque dalle banche.
Gli unici clienti di rilievo sono la Federal Reserve e gli investitori stranieri
Correntemente, la quota bancaria destinata a mutui governativi sta all’incirca sul 13%, che è una quota storicamente bassa. Se tale quota tornasse al livello degli anni ’90, le banche potrebbero assorbire 250 miliardi di dollari/anno in acquisti di obbligazioni governative. Ma esiste un grande se.
Infatti, in ottobre (2009) le banche si sono liberate di tali obbligazioni. Il che significa che rimagono due potenziali compratori. La Federal Reserve, che ha assorbito la quota più grossa del secondo semestre, e gli investitori esteri, che hanno acquistato 380 milioni di dollari.
Per fortuna che c’è Pekino
Gli analisti della Morgan Stanley hanno fatto i loro bravi calcoli concludendo che, nell’anno finanziario che si chiude nel giugno 2010, ci potrebbe essere una caduta di domanda di 598 miliardi, circa un terzo delle nuove emissioni previste. Naturalmente, i nostri amici di Pekino potrebbero cavalcare e guidare il recupero, incrementando ulteriormente il loro già vasto capitale in debiti governativi USA.
Negli ultimi 5 anni hanno ammassato riserve internazionali denominate in dollari per cifre sbalorditive e mai viste, soprattutto come intervento strategico a impedire che la valuta cinese (lo Yuan) si apprezzi contro il dollaro compromettendo le loro esportazioni.
La Casa Bianca non sta più a Washington, ma a ridosso della Grande Muraglia
Al momento attuale, la Repubblica Popolare Cinese detiene il 13% delle obbligazioni statali e delle banconote americane. Al culmine di questo processo di accumulazione riserve nel 2007, la Cina stava assorbendo qualcosa come il 75% delle emissioni obbligazionarie del governo americano (come dire quasi che la Casa Bianca, più che a Washington, sta a Pekino).
Pagare il 7% del PNL ogni anno, a titolo di interessi, sarebbe cosa gravissima e insostenibile
Ma, nel mondo della finanza internazionale, non esistono regali.
Se questa tendenza dovesse continuare, il deficit corrente del Tesoro USA potrebbe salire al 15% del PNL per il 2030, e l’indebitamento col resto del mondo potrebbe toccare il 140% del PNL.
In tale scenario gli USA dovrebbero sborsare qualcosa come il 7% del PNL ogni anno ai creditori esteri, per soddisfare i debiti americani contratti fuori dagli States.
E’ realistico pensare che tutto ciò avvenga? Ho i miei dubbi.
Lamentele dei cinesi e deprezzamento progressivo del biglietto verde
Intanto i cinesi si stanno già lamentando per l’eccesso di dollari in loro possesso.
In secondo luogo un significativo deprezzamento del dollaro sembra più probabile, dal momento che gli USA stanno sfruttando al massimo il loro privilegio mondiale, unico ed esclusivo, di indebitarsi nella propria valuta, per cui possono stampare denaro a piacimento, secondo le scelte operate finora dalla Federal Reserve.
La coerenza di Krugman come economista va sotto i tacchi
Ora, voglio citare una frase importante: La mia previsione è che i politici saranno tentati di risolvere la crisi fiscale nel solito irresponsabile modo prescelto normalmente dai governanti, e cioè quello di stampare facile denaro, sia per soddisfare le spese correnti e le scadenze urgenti, che per inflazionare (e abbassare il vecchio debito globale), facendo uno sconto enorme e comodissimo ai propri debiti.
E’ una frase condivisibile, trasparente e ragionevole. La cosa sorprendente è che a pronunciarla nel marzo 2003 non fu Fidel Castro ma lo stesso Krugman, il più rappresentativo dei profeti keynesiani.
Un anno dopo, egli comparava il deficit USA (che era arrivato al 4,5% del PHL) a quello fallimentare dell’Argentina.
Cambio di partito e cambio di teorie
E’ forse la situazione economica cambiata così drasticamente, per far sì che lo stesso Krugman ritenga oggi che siano stati i deficit di bilancio a salvare gli USA, e che servano deficit ancora più pesanti per gli anni a venire? Forse l’America è davvero cambiata. Nel senso che è cambiato il partito al potere.
Le due soluzioni finali sono il fallimento o una spirale inflazionistica che annienta i vecchi debiti
La storia insegna che ogni massiccia crisi finanziaria viene seguita da massicce crisi fiscali.
Al verificarsi di queste esplosioni debitorie, sono solo due le cose che possono succedere: un fallimento valutario (quando il debito è in valuta straniera), o una spirale di alta inflazione che manda i creditori fuori giri, facendo dimagrire spaventosamentre il loro credito.
Un po’ la situazione tedesca con cartoline dal francobollo di 1 milione di marchi.
Si profila un evidente declino imperiale
La storia di tutti gli imperi europei è colma di episodi di questo genere.
Fallimenti seriali e inflazione alta sono sintomi sicuri di un declino imperiale.
Nel caso dell’America è improbabile un fallimento sui propri debiti, visto che essi sono tutti in dollari, e visto che siamo bravissimi a stamparne sempre di nuovi.
I giochini della FED portano la gente a rifugiarsi sull’oro
La questione chiave allora è se andremo a finire con la FED che stampa denaro, che compra obbligazioni del Tesoro nuove di zecca pagandole con banconote nuove di zecca, e con la solita solfa dei prezzi che vanno alle stelle, mentre le situazioni debito-creditorie si sbriciolano e si dissolvono.
E’ uno scenario che molti investitori nel mondo temono.
Questo è il motivo per cui si stanno liberando della nostra valuta e vendono volentieri i dollari accumulati, preferendo rifugiarsi nel più sicuro oro.
Non prevedo affatto un periodo di stagflazione
Dal mio punto di vista, l’inflazione resta una prospettiva piuttosto remota.
Con la disoccupazione sopra il 10%, coi sindacati deboli e divisi, con grosse capacità manifatturiere sottovalutate, non esistono le pressioni adatte a portare a una stagflazione stile anni ’70, con bassa crescita e prezzi alti.
Timori per un insidioso aumento del tasso di interesse reale
C’è semmai un altro scenario, che per altri versi è ancora peggiore di quello inflattivo.
Possiamo infatti trovarci di fronte a un aumento del tasso di interesse reale (che è dato dal tasso di interesse sottratto del tasso di inflazione).
Secondo le ricerche empiriche di diversi economisti come Peter Orszag (dell’Office of Management and Budget), aumenti significativi del tasso di indebitamento, rispetto al PNL, tendono a far lievitare il tasso di interesse reale.
L’ipotesi di interesse nominale in aumento e di inflazione decrescente
Uno studio recente ha concluso che un tasso del 20% di aumento del debito governativo, rispetto al PNL, potrebbe portare a un aumento di 20-120 punti base (cioè 0,2 – 1,2%) nel tasso di interesse reale.
Questo può succedere in uno dei 3 seguenti casi:
A) Il tasso di interesse nominale aumenta e l’inflazione resta stabile.
B) Il tasso di interesse nominale resta stabile e l’inflazione decresce.
C) Il tasso di interesse nominale aumenta e l’inflazione decresce (ed è questo il caso peggiore).
Esempi del passato e di oggi dimostrano che il tasso reale può sfuggire di mano verso l’alto
Al momento attuale i keynesiani negano che questo possa accadere.
Ma l’evidenza storica è contro di essi. Esistono diversi casi del passato, come quello della Francia anni ’30, dove gli interessi nominali aumentarono persino in periodi di deflazione (o di diminuzione inflattiva).
Questo fenomeno sta pure accadendo ai giorni nostri in Giappone.
La scorsa settimana il ministro nipponico delle finanze Hirohisa Fuji ha ammesso le sue preoccupazioni sul recente aumento dei tassi di interesse dei fondi governativi Japan Bond Yields, riconoscendo che il Giappone era di nuovo in situazione deflattiva dopo 3 anni di modesti incrementi nei prezzi.
Questo significherebbe un costo del denaro più alto e una crisi disastrosa
Non è affatto garantito che la stessa cosa non possa succedere in America.
Gli investitori stranieri potrebbero benissimo chiedere un aumento nominale del tasso di interesse dei Buoni del Tesoro, a compenso del dollaro in fase calante.
E l’inflazione potrebbe continuare a sorprenderci in fase di caduta.
Dopotutto, l’inflazione dei prezzi al consumo è attualmente su valori negativi.
Perché dovremmo temere un aumento dei tassi di interesse reale in accoppiata con l’inflazione?
La risposta è che, per un governo pesantemente indebitato, e per una popolazione ancor più pesantemente indebitata, ciò significherebbe un costo del denaro ricevuto in prestito ancora più alto.
Se cala la credibilità l’intero paese sprofonda
Già gli interessi passivi del governo federale sono previsti in salita dall’8% del 2009 al 17% del 2019, persino se i tassi restano bassi e la crescita riprende.
Se i tassi aumentano leggermente e l’economia boccheggia, gli interessi stanno poco ad andare al 20%, e la storia insegna che, quando spendi il 20%, ossia un quinto delle tue entrate, per pagare il debito pubblico, sei con un piede nella fossa.
E’ troppo facile ritrovarti in un circolo vizioso di diminuita credibilità. Gli investitori non credono più alle tue effettive capacità di far fronte ai tuoi debiti, e così caricano interessi passivi ancora più alti, rendendo la situazione ancora più insostenibile.
Questo discorso vale sia per i paesi piccoli che per le superpotenze.
Siamo dunque di fronte al declino dell’Impero Americano
Il pagamento di interessi passivi si mangia parte del bilancio statale e parte della famosa torta.
Alla fine, lo stato deve ricorrere al taglio delle spese militari.
Prova ne è che, nei presenti piani del Pentagono, le spese per la difesa sono fissate in diminuzione rispetto all’attuale livello del 4%, scendendo al 3,2% del PNL nel 2015 e al 2,6% per il 2028.
Questo significa chiaramentre il declino dell’impero.
Ridurre le spese militari significa perdere la leadership mondiale
Si comincia con una esplosione del debito e si finisce con una inesorabile riduzione delle riserve per le Forze Armate, per la Marina e l’Aviazione.
Questi sono i motivi per cui gli elettori americani hanno ragione a preoccuparsi della crisi debitoria degli Stati Uniti.
Il 42% degli americani sostiene che il taglio netto del deficit alla metà del suo importo, entro la fine della prima amministrazione Obama, dovrebbe essere il più importante compito del governo.
Una percentuale molto più alta di quel 24% che sostiene essere la riforma sanitaria la priorità assoluta del paese.
Se non si parifica il bilancio nel giro di 5-10 anni, andremo verso una inesorabile caduta
Ma il dimezzamento del debito pubblico non è sufficiente.
Se gli USA non riescono ad elaborare un piano credibile di ripristino dell’equilibrio, con parità tra entrate e uscite nel budget federale nel giro di 5-10 anni, il pericolo che la crisi debitoria porti a un irreversibile indebolimento del potere americano nel mondo diventa assai concreto.
La storia è piena di significativi esempi
La monarchia spagnola fallì su tutti i suoi debiti 14 volte tra il 1557 e il 1696, e dovette pure soccombere alla scoperta dell’argento nell’America Latina.
La Francia pre-rivoluzionaria spendeva il 62% delle entrate reali in interessi passivi nel 1788.
L’Impero Ottomano si frantumò nello stesso modo, con interessi privati e ratei di ammortamento che aumentavano dal 15% del budget nel 1860 al 50% nel 1875.
Per non dimenticare l’ultimo Impero Britannico, che negli anni interguerra consumava ed erodeva il suo budget con interessi passivi del 44%, impedendo il suo riarmo di fronte alla minacciosa crescita della Germania Nazista.
L’aritmetica fatale della sconfitta
Possiamo inquadrare benissimo tali casi come esempi di aritmetica fatale dei declini imperiali.
Senza una radicale riforma fiscale, tale perverso meccanismo potrebbe trovare il suo prossimo cliente proprio negli Stati Uniti d’America, è la preoccupata conclusione del professor Tisch.
Per capire le guerre studia bene chi le fomenta
Per capire l’economia studia le depressioni economiche, dice Bernake?
Per capire le guerre studia bene chi le fomenta, le stimola e le manovra, aggiungiamo noi.
Dalle atomiche sulle città giapponesi, al napalm sui villaggi vietnamiti, ai proiettili all’uranio dei Balcani (con molti militari italiani finiti malissimo), al fosforo sulle città irachene, ai gas nervini forniti a Saddam prima di scalzarlo ed impiccarlo, alle armi terroristiche dell’Aids promosse da ex-presidenti come Clinton, e dei vaccini Tamiflu prodotti da suoi ministri come David Rumsfeld, sfruttando governi e ministeri fantoccio di 200 repubbliche mondiali delle banane.
Occorre sempre rispettare l’identità e la cultura dei popoli
Questa è, ci spiace doverlo riconoscere, l’America odierna, un paese che pretende di controllare i destini del mondo e di imporre, con le buone o le cattive, i suoi diktat e il suo modello di civiltà.
Anche in Afghanistan, come in Iraq, gli americani pretendono di imporre i loro schemi, con la
Coca-Cola al posto delle spremute di melograno, e coi fast-food al posto dei mercanti di meloni e di datteri.
Il terrorismo stile Bin Laden, e le intemperanze stile Khomeini, si combattono sul piano culturale e su quello della diplomazia, disattivando sì con efficacia il terrorismo, ma rispettando in ogni caso l’identità e la cultura dei popoli. L’esempio dell’Unione Sovietica, sbriciolatasi per implosione ideologica, pare non aver insegnato nulla all’America.
L’America sta commettendo dei gravi errori di pensiero, di calcolo e di azione
In Afghanistan, l’America non opera in difesa della pace, della civiltà e del progresso, ma sta invece compromettendo irreparabilmente la convivenza pacifica tra Occidende e Oriente.
Tutto questo non certo in nome di sani principi e di superiori ideali, ma solo per la sua crescente fame imperialistica.
Clinton, Gates, Soros, Rumsfeld, Monsanto, Smithfield e Rockefeller, non hanno niente di meglio e di più civile, rispetto ai cammellieri e ai beduini del deserto
Non solidarizziamo in alcun modo coi Talebani che cannoneggiano i templi buddhisti, con le bande terroristiche che organizzano attentati, coi paesi insidiosi ed illiberali tipo la Korea e l’Iran, o con regimi tardo-comunisti di alcun genere.
Nessun antiamericanismo preconcetto e di maniera.
Non siamo affatto nemici dell’America nell’assieme, grande paese tuttora ricco di valori e non solo di magagne.
Ma questo non ci impedisce di esprimere la nmostra disaffezione verso quanto sta accadendo.
Non è questione di destra e sinoistra, ma è questione di coscienza
Non occorre nemmeno appellarsi a concetti tipo destra, sinistra o centro, per convenire sul fatto che i soldati italiani, indipendentemente dallo spirito che anima le loro missioni, non siano oggi da quelle parti per la difesa della libertà e della democrazia, ma solo per la difesa degli ideali di dominio mondiale di gente come Clinton, Gates, Soros, Rumsfeld, Obama, Monsanto, Smithfield e Rockefeller, che per molti aspetti nulla hanno di meglio e di più civile dei cammellieri e dei beduini dell’Afghanistan.
Valdo Vaccaro – Direzione Tecnica AVA-Roma e ABIN-Bergamo
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