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domenica 17 aprile 2011

Portogallo: come direbbe Tony Soprano, watchyagonnado? ("come pensi di cavartela?"). Un'offerta che non si puo' rifiutare (Presseurop)

8 aprile 2011 The Guardian Londra
Un fotogramma de I Soprano (HBO, 1999-2007).
Un fotogramma de I Soprano (HBO, 1999-2007).
                
Ieri greci e irlandesi, oggi i portoghesi: i cittadini dei paesi europei oggetto degli interventi di Ue e Fmi scoprono a loro spese di aver accettato un abbraccio mortale.
Nella serie televisiva I Soprano c’è un episodio in cui il gangster Tony Soprano spiega a un insignificante giocatore d’azzardo che lo ha lasciato giocare e perdere alla grande perché “sapeva che lui non avrebbe potuto permetterselo, ma la moglie aveva un negozio di articoli sportivi”, che egli ha poi svuotato completamente, facendolo fallire.
I Soprano è disponibile anche in portoghese. I portoghesi potranno quindi scoprirvi molte più cose sul loro destino che non sui media che parlano di come il Portogallo sia l’ultima economia essere caduta nelle grinfie della Commissione europea e, probabilmente, dell’Fmi. Come possono testimoniare irlandesi e greci, è un abbraccio da vero gangster.
Il governo portoghese ha chiesto un prestito di emergenza di 80 miliardi di euro, in seguito a un’asta di titoli di stato che ha visto i tassi d'interesse raggiungere livelli esorbitanti. Ma a giudicare dall’esperienza di altre regioni europee, il tasso applicato dall’Ue non sarà inferiore a quello richiesto dai mercati.
I bailout di Irlanda e Grecia sono stati definiti un passo estremo ma necessario per mantenere la solvibilità dello stato. L’intento tuttavia è fallito. Entrambe queste economie hanno subito ulteriori declassamenti da parte delle agenzie internazionali di rating del credito da quando sono stati annunciati i bailout, e i mercati finanziari stanno ancora contemplando l’eventualità di un probabile default.
Il governo di Lisbona, come quelli di Atene e Dublino, probabilmente scoprirà di aver scambiato l’incerto e costoso debito del mercato finanziario con il certo ed esorbitante debito verso l’Ue e l'Fmi. Di conseguenza, lo stato sarà meno capace di ripagare l’indebitamento sul lungo periodo e di sostenere le spese connesse al debito sul breve.
Ma c’è di peggio: in cambio dei capitali per il salvataggio saranno richiesti ulteriori tagli alla spesa pubblica e nuove tasse per i contribuenti a basso e medio reddito, il che strangolerà l’attività economica, riducendo le entrate fiscali da cui dipendono le spese per il debito. La probabilità è quindi che il deficit aumenti, e altrettanto vale per il rischio di default. Al momento le entrate fiscali di greci e irlandesi sono in calo.
Si susseguono invece le notizie (puntualmente smentite a livello ufficiale) secondo cui il Fmi sta sollecitando un parziale default del debito greco. A prescindere dal fatto che tali notizie siano vere o meno, l’opinione comune – costituita nello specifico dall’Economist, dal Financial Times e da economisti di spicco come Joseph Stiglitz, Paul Krugman e Kenneth Rogoff – sta sollecitando un default parziale di Irlanda e Grecia semplicemente perché gli interessi sono ormai insostenibili.
La ragione per cui queste somme aumentano la probabilità di un default è che si tratta di bailout alla Tony Soprano: in pratica, nemmeno un centesimo va a finire nei paesi interessati, bensì dritto dritto ai creditori, cioè le banche europee e gli hedge fund statunitensi. Si tratta di una replica degli odiati bailout delle banche visti in tutto il mondo, questa volta però a livello internazionale. I contribuenti delle cosiddette economie “periferiche” stanno salvando le grandi banche europee. Anche le banche britanniche ne approfittano, in primis la Royal Bank of Scotland, di proprietà dello stato.

Periferici e dannati

La definizione “economie periferiche” è una delle etichette più garbate per designare i destinatari degli aiuti. Si dice che la classificazione avvenga sulla base dei livelli di indebitamento, ma non è così. Sia l’Italia che il Belgio hanno un rapporto tra indebitamento pubblico e Pil molto più alto di queste economie, a eccezione della Grecia. Né del resto è vero che siano tutte cronicamente predisposte ad alti deficit: Irlanda e Spagna prima della crisi avevano infatti notevoli eccedenze pubbliche.
In realtà è il settore bancario a determinare se un paese verrà a trovarsi sotto l'attacco dei mercati finanziari, delle agenzie di rating, dall’Ue e dalla Banca centrale europea. I dati forniti dalla Bank for International Settlement evidenziano che i valori patrimoniali netti del settore bancario di Germania, Paesi Bassi e Francia sono superiori ai duemila miliardi di dollari, mentre i paesi che si affacciano sul Mediterraneo hanno passività esterne di oltre 400 miliardi di dollari. L’Irlanda è passata da essere il tipico esempio di austerità al caso disperato dell’Ue solo quando alla fine del 2010 le sue banche si sono rivelate palesemente insolventi.
Anche la politica interna ha la sua fetta di responsabilità. La crisi ha colpito tutti i paesi, ma alcuni hanno saputo affrontarla meglio di altri, soprattutto grazie a un aumento della spesa pubblica che ha portato alla ripresa dell’economia. È stato l’iniziale indebolimento delle entrate fiscali a determinare la gravità della crisi. Se si dovessero riunire le economie europee a bassa fiscalità, in prima fila sederebbero Irlanda, Estonia, Slovacchia, Grecia, Spagna e Portogallo.
I loro speculatori nei settori bancario, imprenditoriale, edilizio e delle spedizioni hanno giocato d’azzardo e perso. Adesso sono arrivati i duri a privarli di ogni asset e a rifilare ai contribuenti ancora più debito. Come direbbe Tony Soprano, watchyagonnado? ("come pensi di cavartela?"). (traduzione di Anna Bissanti) Link Articolo - Presseurop

Islanda: uscire dalla crisi senza sudare (Presseurop)

8 aprile 2011 Mediapart Parigi
Reykjavik, aprile 2011.
Reykjavik, aprile 2011.
                 
Mentre sul continente i paesi indebitati si dannano tra sacrifici e rinunce, l'isola ha scelto un'altra strada: svalutazione, lunghi tempi di rientro e niente aiuti alle banche. Il referendum del 9 aprile dovrebbe confermare questa linea.
Mente nell'Europa continentale i paesi vittime della crisi del debito moltiplicano impopolari piani di austerity, l'Islanda, che ha scelto di lasciar fallire le banche, si rimette lentamente in carreggiata. Il 9 aprile, inoltre, gli islandesi avranno la possibilità di rifiutarsi di rimborsare i creditori internazionali della banca Icesave.
Una cattedrale di cemento nero e vetro ricoperta di alveoli rifrangenti in costruzione davanti al mare. Impossibile non notarla dalle strade di Reykjavik, tanto il cantiere è enorme rispetto a una città dall'architettura poco elevata. L'Harpa, nato dalla fantasia del celebre architetto danese Olafur Eliasson, sarà utilizzato come teatro dell'opera e sala congressi. Nonostante le voci che annunciavano la sospensione dei lavori, alla fine l'edificio sarà inaugurato il prossimo 4 maggio.
Dopo il crack bancario dell'isola nell'ottobre del 2008, il gruppo Portus, principale investitore di un progetto che in principio sarebbe dovuto costare 74 milioni di euro, è stato costretto a chiedere aiuto al governo e alla marina di Reykjavik per evitare che il cantiere si fermasse. L'esecutivo non si è tirato indietro, così questa gemma dell'architettura vedrà la luce del sole. Ma allora che fine ha fatto la crisi dell'Islanda?
Reykjavik, ancora scossa dallo scampato fallimento, non si è lanciata a capofitto nell'austerity. Contrariamente alle tendenze in voga nel continente, l'isola ha scelto di prendersi più tempo rispetto agli altri per portare a termine il risanamento del suo bilancio. Anche se alcuni progetti continuano ad andare avanti. I provvedimenti di risparmio puntano a portare il deficit al 10 per cento del pil in tre anni.
Niente a che vedere con un'altra isola, con la quale l'Islanda è spesso messa a confronto: l'Irlanda prevede di portare il proprio deficit dal 32 al 9 per cento nel corso del solo 2011. Oggi Reykjavik sostiene di aver riavviato la crescita economica (prevista al 3 per cento per l'anno in corso) e sta riducendo il debito senza forzare troppo la mano. Come ha fatto un'economia così minuscola (320mila abitanti) a rialzare la testa in appena due anni? Gli economisti avanzano tre diverse spiegazioni:
- La svalutazione della corona islandese. La valuta ha perso il 40 per cento a fine 2008, e le esportazioni di alluminio e pesce hanno ripreso slancio.
- Il principio del "too big to save" (troppo grosso per essere salvato). Si tratta dell'esatto opposto del "too big to fail" (troppo grosso per fallire) che ha prevalso finora negli Stati Uniti e in Europa, obbligando i governi a salvare le maggiori banche per evitare fallimenti a catena. In Islanda i bilanci delle tre principali banche dell'isola erano troppo grandi (fino a dieci volte il pil nel 2007) perché potessero essere salvate integralmente, e lo stato si è accontentato di riacquistare i conti "interni", vale a dire i prestiti ai privati e alle imprese dell'isola. Gli azionisti hanno dovuto assumersi il carico delle perdite sui conti stranieri, i più cospicui.
- Un ricorso all'austerity meno rigoroso che altrove, deciso in accordo con le parti sociali. Un patto di stabilità sociale è stato siglato nel 2009 per evitare le ripercussioni sulla società islandese.
Se la ripresa avanza, trainata dalle esportazioni di un'economia molto aperta, le famiglie indebitate sono ben lontane dal riprendere fiato. I consumi arrancano, e restano al 20 per cento in meno rispetto ai livelli precedenti la crisi. Il tasso di disoccupazione è nuovamente sceso al 7 per cento dopo aver toccato quota 9,7 per cento. A ogni modo niente di paragonabile a quanto avviene in Irlanda, dove i senza lavoro sono più del 14 per cento.

C'è chi sta peggio

Sigridur Gudmunsdottir fa parte delle migliaia di islandesi vittime di una crisi di cui non hanno colpa. Aveva un "lavoro del 2007", ovvero un impiego comodo e ben remunerato, specchio dell'euforia dei primi anni duemila. "Sentiamo dire che abbiamo festeggiato troppo, che abbiamo consumato troppo e chiesto troppi prestiti. Ma è falso: soltanto una piccola parte degli islandesi ne ha davvero approfittato", dice Sigridur.
Licenziata nel momento peggiore della recessione, a cinquant'anni Sigridur è tornata tra i banchi dell'università. "Questo mi permette di ricevere gli aiuti agli studenti, che sono più elevati dei sussidi di disoccupazione", spiega. Sigridur ha contratto nel 2006 un mutuo immobiliare da 68mila euro per acquistare una casa. In parte legato all'inflazione, il prestito è esploso dopo la crisi, arrivando a 86mila euro. Così alla fine di ogni mese la donna si è trovata sempre più in trappola: da una parte il volume del suo mutuo aumentava, dall'altra il valore reale della sua casa crollava.
Oggi Sigridur non sa ancora come riuscirà a tirarsi fuori dai debiti, ma non si lamenta. "Alcuni islandesi sono in una situazione molto peggiore. Tutti quelli che avevano contratto mutui in valuta estera sono davvero nei guai". In Islanda non ci si lamenta troppo. Dopo tutto la vita sulle isole è sempre stata dura. Partire come hanno fatto altri? "Impossibile, sono troppo legata alle mie radici". La ripresa dell'Islanda? "Chiedete per strada. Non ci crede nessuno."
Ascoltando le conversazioni a Reykjavik, appare evidente la spaccatura tra una classe politica convinta che la pagina della crisi sia stata voltata e i cittadini soffocati dal quasi fallimento dell'isola. Nell'Islanda del dopo crack si continua a parlare di pil e debito pubblico, che sembrano gli unici indicatori della politica attuale, qui come altrove in Europa. Ma dopo aver costretto alcune banche al fallimento e aver intrapreso la via dell'austerity "dolce", sarà meglio che Reykjavik si decida ad adottare strumenti e misure alternative per il bene della popolazione dell'isola. (traduzione di Andrea SparacinoFonte: Presseurop - link articolo

Sintesi del 2010: poveri e tartassati di Ugo Arrigo (CHICAGO BLOG)

Lo scorso primo marzo l’Istat ha comunicato i dati ufficiali sul Pil del 2010 e un preconsuntivo dei dati di finanza pubblica. In attesa del conto consolidato della P.A. per il IV trimestre 2010 e per l’intero anno, che sarà pubblicato lunedì 4 aprile, è tuttavia utile commentare due dati del 2010 i quali appaiono positivi a un primo esame e assai meno dal secondo in avanti. Uno di essi è la crescita del Pil reale: se è vero che il +1,3% dell’Italia è comunque distante dall’1,7% dell’euroarea, dall’1,8% dell’UE27 e dal 2,8% degli USA, esso è pur sempre maggiore di qualche decimo di punto di quanto ci aspettavamo sino a pochi mesi fa. La seconda notizia positiva è la riduzione della pressione fiscale: secondo l’Istat si sarebbe infatti attestata nel 2010 al 42,6%, mezzo punto al di sotto dell’anno prima.
Sin qui le buone notizie ma se leggiamo con attenzione il comunicato del primo marzo scopriamo subito che l’Istat ha rivisto al ribasso il Pil del 2009: non sarebbe stato pari a 1520,9 mld., come abbiamo sempre creduto, ma a 1519,7, quindi 1,2 mld. in meno. Questo implica che la caduta del Pil reale, avvenuta nel 2009, è stata del 5,2% e non del 5,0%, come ci era stato detto un anno fa. Alla fine della fiera la maggior crescita nel 2010 rispetto alle previsioni è esattamente controbilanciata dal maggior calo dell’anno prima e il Pil nominale 2010, pari a 1548,8 mld., è ancora 19 mld. al di sotto del Pil nominale 2008 che fu du 1567,8 mld.
Quanto alla pressione fiscale dobbiamo rallegrarci della riduzione 2010, conseguenza del venir meno dell’effetto al rialzo una tantum prodotto dallo scudo fiscale nel 2009, oppure rattristarci degli elevati livelli ai quali continua a collocarsi? Lo scorso dicembre l’Ocse ha idealmente assegnato al ministro Tremonti la medaglia di bronzo della più alta pressione fiscale tra i paesi industrializzati (e quindi del pianeta intero): solo Danimarca e Svezia nel 2009 hanno fatto meglio dell’Italia (peggio, ovviamente, secondo il nostro punto di vista), rispettivamente con il 48,2 e 46,4% del Pil. Si tratta di un risultato notevole per il nostro paese, conseguito in poco tempo, se si considera che solo nel 2005, quattro anni prima, i paesi Ocse con pressione fiscale superiore all’Italia erano addirittura sette: oltre a Danimarca e Svezia anche Belgio, Finlandia, Austria, Francia e Norvegia. Da allora tuttavia la pressione fiscale si è ridotta in ognuno di essi, compresi Danimarca e Svezia, mentre solo in Italia si è accresciuta.
Sin qui i dati ufficiali, tuttavia non dobbiamo scordarci che la pressione fiscale viene misurata mettendo a rapporto il gettito fiscale effettivo col Pil nominale, il quale rappresenta l’insieme degli imponibili delle differenti imposte. Ed è qui che casca il nostro asinello: il Pil nominale è lo somma di due componenti, il Pil emerso e il Pil sommerso, quest’ultimo derivante da attività economiche lecite ma che sfuggono all’ufficialità presumibilmente per non non dover pagare le tasse e non per la timidezza di carattere di chi le realizza. La pressione fiscale effettiva è dunque, correttamente, il rapporto tra gettito fiscale e Pil emerso: per il 2005 è il rapporto tra il 40,8%, pressione fiscale ufficiale secondo l’Ocse, e l’82,5%, corrispondente alla quota di Pil emerso in quell’anno secondo le stime dell’Istat. Il risultato è una pressione fiscale effettiva al 49,6% nel 2005 che già poneva l’Italia al secondo posto al mondo dopo il 50,4 della Danimarca e prima del 48,9 della Svezia. Per il 2009 non vi sono stime ufficiali sul peso del sommerso ma nello scorso autunno il Centro Studi Confindustria ha stimato che sia pervenuto al 20% del Pil totale, quota che porterebbe la pressione fiscale effettiva, calcolata secondo il metodo precedente, al 54%, sei punti sopra la Danimarca e sette sopra la Svezia! Il grafico sottostante evidenzia il riposizionamento dell’Italia nella hit parade della pressione fiscale: ITALY riporta i dati ufficiali Ocse, ITALY(*) quelli corretti per il sommerso (che ci danno diritto alla medaglia d’oro della più alta pressione fiscale planetaria).


Come possa crescere un sistema economico con questa pressione fiscale è un autentico mistero. E infatti, in attesa che qualche maghetto riesca a svelarlo, l’economia italiana non cresce proprio, come mostra il grafico sottostante nel quale è rappresenta l’evoluzione in termini reali del Pil in Italia e nell’UE a 27 paesi dal 1996 ad oggi. Posto per entrambi uguale a 100 il dato del 1996, nel 2007, anno precedente la recessione, esso si attestava a 134 per l’UE-27 e solo a 119 per l’Italia; nel 2010 il dato UE-27 è a 131, quello italiano solo a 113, appena un punto in più del 112 già raggiunto nel lontano 2001.

I dati precedenti testimoniano come la torta complessiva a disposizione degli italiani non sia cresciuta nel periodo compreso tra il 2001 e il 2010. Nel decennio i commensali sono tuttavia aumentati di numero e in conseguenza la fetta di torta a disposizione di ognuno si è ristretta. Il grafico sottostante evidenzia il Pil reale procapite dell’Italia nel periodo 2001-2010. Ponendo uguale a 100 il dato del 2001 si può osservare una sostanziale stazionarietà della grandezza già prima della recente recessione: nel 2005 il dato era a 99,9 e nel 2008, a recessione iniziata, ancora a 100. In sostanza la crisi ha travolto un’economia già immobile. Nel 2010 il Pil reale pro capite è stimabile a 95, il 5% in meno rispetto all’inizio del decennio.

Morale della favola: l’Italia soffre di un problema duale di eccessiva pressione fiscale e di assenza di crescita. Davvero pensiamo di uscirne assemblando imprenditori di stato per salvare compagnie di bandiera decotte, creando nuove banche di stato a mezzogiorno e nazionalizzando mucche a mezzanotte? LINK ARTICOLO

Se Gheddafi non c’è il petroliere balla? – di Emilio Rocca (Chicago Blog)

I petrolieri stanno approfittando della crisi libica? L’accusa di “speculare” sulla guerra circola fin da quando i prezzi del petrolio hanno preso il volo dopo lo scoppio delle ostilità, ed è stata rinfocolata dall’avvio di una indagine conoscitiva da parte dell’Antitrust sulla validità dell’indice Platts, che stima il prezzo di mercato della materia prima. Il Garante della concorrenza ha pure posto l’enfasi sugli strumenti utili a favorire la diffusione delle pompe bianche e della grande distribuzione. Dal canto loro, fin dai primi di marzo le associazioni dei consumatori chiedono un intervento del governo. Ma cosa dicono i dati?
Le accuse dei consumatori e i sospetti impliciti nell’indagine dell’Antitrust, si rivelano scarsamente fondati. Un primo modo per verificare l’ipotesi di scarsa concorrenzialità è osservare la variazione del margine lordo delle compagnie: davvero le rivolte in Libia sono state una scusa per fare extra-profitti? Possiamo calcolare il margine lordo come differenza tra il prezzo alla pompa e il costo della materia prima per produrre quel litro di benzina o gasolio. Seguendo la metodologia abituale, possiamo assumere che il costo della materia sia uguale alla quotazione Platt’s CIF Med, che rappresenta il costo per acquistare dei carburanti raffinati e averli consegnati in un porto del Mediterraneo. Il margine lordo comprende costi di stoccaggio e di distribuzione oltre al margine netto realizzato dalla compagnia e dal gestore dell’impianto.
Consideriamo allora l’accusa delle associazione dei consumatori, per cui i petrolieri avrebbero trovato nelle rivolte libiche un buon diversivo per fare maggiori profitti. Le prime manifestazioni registrate in Libia risalgono alla sera del 15 febbraio: quel giorno in Italia le compagnie petrolifere registravano un margine lordo di 15,6 centesimi per la benzina e di 13,9 centesimi per il gasolio. A distanza di un mese e mezzo, il 29 marzo questi valori erano, rispettivamente, 15 e 16,1 centesimi. In un mese e mezzo il margine lordo sulla benzina è diminuito di 0,6 centesimi, quello sul gasolio è aumentato di 2,2 centesimi. Ma prima trarre delle conclusioni affrettate è utile allargare il campo di attenzione e considerare le variazioni del margine lordo su un periodo più ampio. Se osserviamo il grafico del margine lordo che abbiamo calcolato da inizio 2010 ad oggi notiamo che il suo valore è tutt’altro che stabile. Dall’anno scorso ad oggi ha toccato massimi di 18 centesimi e minimi di 12 centesimi: un range considerevole. Quello che preme sottolineare è che, in questo periodo più ampio, il margine lordo è stato estremamente volatile, ma non ha manifestato alcun trend significativo.
Venendo al secondo sospetto, ci chiediamo se l’indice Platt’s sia un valido riferimento per le compagnie petrolifere nel decidere i prezzi. Teoricamente per essere un “buon” riferimento dovrebbe rispecchiare perfettamente le variazioni nelle quotazioni del greggio più quelle relative ai costi di raffinazione che possono risentire del mix di greggi effettivamente disponibile in un dato momento, oltre al rapporto tra la domanda attesa e la capacità effettivamente disponibile e le scorte. In tal caso ogni variazione nel prezzo dei carburanti raffinati sarebbe imputabile ad una variazione del prezzo della materia prima, il greggio appunto, e potremmo escludere l’ipotesi di comportamenti anticoncorrenziali delle compagnie e ad aumenti del loro margine.
Il grafico seguente mostra allora le variazioni tra prezzi della benzina alla pompa, la sua quotazione Platt’s e le variazioni di un litro di greggio. Quest’ultimo valore è un paniere dei principali quotazioni del greggio; inoltre viene espresso in euro per escludere qualsiasi effetto del mercato dei cambi sulle variazioni analizzate.
Consideriamo la relazione tra l’indice Platt’s e il greggio: se all’inizio il parallelismo è molto evidente, sembrerebbe poi essere molto più volatile del greggio. Di nuovo, espandendo il periodo di studio questo dubbio si indebolisce. Misurando la correlazione tra platts e greggio da inizio 2010 all’ultima settimana otteniamo un valore robusto, pari a 0,97. Questo prova che l’indice Platt’s segua bene le variazioni del prezzo del greggio e che aumenti nella quotazione della benzina raffinata siano imputabili per la maggior parte ad aumenti del prezzo del greggio.
Sembrerebbe più sospetta la relazione tra il prezzo della benzina alla pompa e l’indice Platt’s: in particolare si ha la netta sensazione che quando la quotazione sale il prezzo della benzina alla pompa lo segua fedelmente, mentre quanto scende il prezzo del carburante sia molto più rigido ad adattarsi. Confermerebbe dunque la voce popolare secondo cui, quando il prezzo del greggio aumenta la benzina rincara subito, mentre quanto diminuisce le compagnie aspettino a ridurre il prezzo del carburante e si arricchiscano. Prima di arrivare a questa conclusione proviamo però ad espandere di nuovo il campo di attenzione. Anche la correlazione tra Platt’s e prezzo alla pompa è robusta, pari a 0,96. Di fatto possiamo concludere che, sebbene negli ultimi giorni le variazioni siano state molto forti, nell’arco di quasi un anno e mezzo il prezzo della benzina in Italia ha rispecchiato fedelmente le variazioni delle quotazioni internazionali Platt’s. È possibile che i movimenti dei prezzi dei prodotti raffinati abbiano l’effetto di “smorzare” i cambiamenti: i petrolieri punterebbero, nel breve termine, a proteggere più i volumi che i margini nelle fasi di prezzi crescenti, per poi ricuperare i margini quando i prezzi internazionali si riducono.
La tabella seguente riassume i valori delle correlazioni calcolate tra il primo gennaio 2010 e il 29 marzo 2011.
CORRELAZIONE
Platt’s – prezzo benzina alla pompa
Platt’s – greggio
Margine lordo – Mix greggi €
0,957131948
0,976001671
0,068241101
L’ultima colonna mostra che la correlazione tra il margine lordo della vendita della benzina e il prezzo del greggio è pressoché inesistente. Ciò conferma un’intuizione teorica: non sarebbe molto tempestivo per le compagnie aumentare i propri margini quando il prezzo del petrolio sale. Non sarebbe tempestivo perché in tali circostanze hanno tutti gli occhi addosso: in questi giorni i politici e i media riservano grande attenzione all’argomento e sono tutti pronti ad accusare i petrolieri collusi e opportunisti. Peraltro, non sarebbe neppure particolarmente vantaggioso: si collude meglio quando i prezzi sono “bassi” così si aumentano i margini senza perdere volumi.
Tirando le fila del discorso, le accuse di scarsa concorrenzialità non reggono il confronto dei dati. Le compagnie petrolifere non hanno goduto margini maggiori approfittando della recente instabilità delle quotazioni del greggio e le loro procedure di pricing sono coerenti. Resta l’impressione un po’ amara che ancora una volta si reagisca al caro-benzina puntando il dito contro le compagnie petrolifere. Lo stereotipo vuole infatti questo settore manovrato da oligopolisti senza scrupoli e ciò giustifica l’attenzione pedante dell’Antitrust. Paradossalmente, la recente indagine dell’Autorità è iniziata proprio nella settimana in cui è diventato legge il decreto che finanzia il Fondo Unico per lo Spettacolo attraverso un aumento delle accise sui carburanti di “soli uno-due centesimi Link articolo - CHICAGO BLOG

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