Powered By Blogger
Loading...

lunedì 22 novembre 2010

Pensioni, sale l'età per l'assegno: 61 anni


Dal 2011 scattano le nuove regole per quelle di anzianità e quelle sulle finestre per l'uscita previste dalla manovra

MILANO - Doppio scalino in arrivo per i lavoratori che vogliono andare in pensione: dal prossimo gennaio per ottenere l'assegno bisognerà aver compiuto almeno 61 anni. Dal 2011 infatti entreranno in vigore sia le nuove regole per l'accesso alla pensione di anzianità previste dalla riforma del 2007 (l'età minima per uscire passa da 59 a 60 anni per i lavoratori dipendenti a fronte di almeno 36 anni di contributi) sia quelle sulle finestre per l'uscita previste dalla manovra di luglio. Si devono ora aspettare almeno 12 mesi dal raggiungimento dei requisiti, sia di anzianità sia di vecchiaia. Nel frattempo il numero delle pensioni di anzianità è aumentato del 54% in meno di un anno. Nei primi dieci mesi del 2010, tra gennaio e ottobre, le uscite anticipate rispetto all'età di vecchiaia sono state 155.440 a fronte delle 100.880 pensioni effettivamente liquidate nel 2009. E l gran parte delle uscite per anzianità del 2010 è dovuta ai lavoratori dipendenti (97.559 a fronte delle 56.963 pensioni liquidate nell'intero 2009 con un aumento del 71%). «Il dato - sottolinea il presidente dell'Inps, Antonio Mastrapasqua - risente del forte calo per le pensioni di anzianità registrato nel 2009 ed è dovuto alla maturazione dei requisiti per l'uscita dal lavoro di una parte rilevante di persone "bloccate" dall'aumento dello scalino a luglio del 2009 (da 58 a 59 anni). Nel 2011 - avverte - ci si attende un nuovo calo con uscite per anzianità sotto le 100.000 unità».
Corriere della Sera
20 novembre 2010(ultima modifica: 21 novembre 2010)

I prestiti delle banche tornano sui livelli del gennaio 2009. Ma crescono anche le sofferenze



I prestiti delle banche a famiglie e imprese italiane tornano a crescere a livelli che non si registravano più dal gennaio 2009. È il dato che emerge dal rapporto mensile dell'Abi. «Stiamo tornando quasi sui livelli pre-crisi», commenta il capo economista del Centro studi e Ricerche Abi Gianfranco Torriero. I prestiti a famiglie e imprese non finanziarie a ottobre, secondo prime stime, sono risultati pari a 1.449 miliardi, in crescita tendenziale del 3,7%. Un tendenziale così alto non si registrava da 21 mesi (+4,21%).

Considerando l'intero settore privato l'incremento tendenziale é del 5,4%, livelli massimi dall'ottobre 2008. Crescono nuovamente, però, le sofferenze bancarie, legate soprattutto alle difficoltà dell'economia. A settembre - secondo il bollettino mensile dell'Abi sui mercati finanziari e creditizi - le sofferenze lorde sono state pari a 72,9 miliardi, circa 1,7 miliardi in più rispetto ad agosto e 18 miliardi in più rispetto a settembre del 2009, con un +32,6% su base annua (ma per il terzo mese consecutivo c'è stato un rallentamento della crescita).

In rapporto agli impieghi, a settembre le sofferenze sono pari a quasi il 4%, in forte crescita rispetto al 3,1% di un anno prima. Le sofferenze al netto delle svalutazionisono state pari a 42,5 miliardi, 1,446 miliardi in più nel confronto con agosto e circa 10,5 miliardi in più su base annua (+33,2%). Il rapporto tra sofferenze nette e impieghi totali - conclude il report di Palazzo Altieri - si è collocato al 2,26% (1,83% a settembre dell'anno scorso), mentre il rapporto tra sofferenze nette e capitale e riserve è stato pari all'11,78% (a settembre dell'anno scorso era 10,93%).

Il sole 24 ore Fonte

Irlanda: Pro e contro dell’intervento (Presseurop e Corriere)

22 novembre 2010 PRESSEUROP

"Siete fortunati, siamo arrivati giusto in tempo". Sull'isola: il premier irlandese Brian Cowen.
"Siete fortunati, siamo arrivati giusto in tempo". Sull'isola: il premier irlandese Brian Cowen.
Schrank, The Independent on Sunday


Pro: Decisione giusta, anche se tardiva

Il 21 novembre i paesi dell'euro sono riusciti a definire una posizione comune con gli altri membri dell'Unione Europea e con il Fmi per evitare un default che avrebbe minacciato il futuro della moneta unica.
Di fronte alla crisi irlandese del debito privato in procinto di travolgere il bilancio pubblico di quel Paese e parti rilevanti del settore bancario britannico e tedesco, hanno infatti trovato un accordo per utilizzare a sostegno del governo irlandese quel fondo di stabilizzazione, varato per fronteggiare la crisi del debito pubblico greco della scorsa primavera.
Le modalità e l'entità di questo nuovo intervento, che dovrebbe attestarsi intorno agli 85 miliardi di euro, testimoniano comunque il fatto che – come nel caso della Grecia – si è pervenuti all'accordo quando si era ormai giunti sul ciglio del burrone. Tale constatazione induce due elementi di ottimismo e una preoccupazione per chi ha a cuore il futuro dell'area dell'euro e auspica un più forte coordinamento fra gli stati-membri per il suo rafforzamento e per la sua crescita.
La prima ragione di ottimismo è che, nonostante le debolezze delle istituzioni europee e gli errori politici di percorso, alla venticinquesima ora i paesi europei leader e le istituzioni internazionali riescono a individuare ragionevoli vie di uscita con i governi al centro delle crisi.
Il secondo elemento positivo è che, seppure in forme erratiche e farraginose, queste vie di uscita fanno segnare qualche progresso rispetto alla costruzione dei due strumenti indispensabili a una soluzione più strutturale delle crisi interne all'Unione monetaria europea: un suo più forte coordinamento fiscale e una maggiore integrazione della sua vigilanza finanziaria. 


Questi due elementi di relativo ottimismo non possono però cancellare un dato sistematico: le soluzioni europee sono tardive e seguono percorsi laceranti. Oltre ad aumentare i costi finanziari e sociali di ogni singolo aggiustamento, tale dato indica che molte leadership politiche nazionali non sono riuscite a comunicare al loro corpo elettorale un fatto che dovrebbe essere ovvio: senza un'area economica e istituzionale integrata, tra un decennio o poco più tutti i paesi dell'Europa continentale (Germania e Francia comprese) saranno condannati a svolgere un ruolo ancillare rispetto alle grandi aree asiatiche e americane.
Di fronte a una posta così strategica si vorrebbe che, anziché invocare a fini interni una demagogica «punizione» degli stati-membri reprobi e degli investitori incauti, la signora Merkel e i suoi oppositori si adoprassero per convincere il ceto medio tedesco che il suo benessere futuro è intrecciato con i destini dell'Europa e che, quindi, la sua forza economica va tradotta in forza politico-istituzionale e messa al servizio di una costruzione europea cooperativa.
Marcello Messori, Corriere della Sera, Milano

Contro: Un regalo alle banche

Josef Ackermann è improvvisamente diventato un uomo di stato. Nei giorni scorsi il presidente della Deutsche Bank si è trattenuto  a Bruxelles dove ha fatto visita al presidente della Commissione europea, al presidente del Consiglio europeo e al commissario per la finanza. Alla fine ha dichiarato: “l'Europa deve salvaguardare la sua unità e non può cadere vittima di considerazioni economiche a breve termine”.
Se il capo della Deutsche Bank, uno svizzero, diventa un fervente europeista, bisogna stare bene attenti. Quello che dice Ackermann è chiaro: gli stati europei devono aiutare finanziariamente l'Irlanda. A  quanto si sente dire, la cifra che Ue e Fmi dovrebbero mettere a disposizione dell'Irlanda si aggira tra i 50 e i 100 miliardi di euro.
Ma anche quello che Ackermann non dice è chiaro: se l'Europa aiuta l'Irlanda, aiuta anche le banche tedesche. Queste sono infatti i maggiori creditori dell'Irlanda dopo quelle britanniche. Hanno concesso alla repubblica irlandese più di cento miliardi di prestito, di cui 40 solo alle banche irlandesi.
L'Irlanda è  stata a lungo il casinò d'Europa. Molto di quello che altrove era proibito per legge, là era possibile. Ora le istituzioni finanziarie irlandesi dipendono dagli aiuti statali. La paura è che a breve lo stato irlandese non possa più garantire la copertura
La crisi finanziaria è tornata al punto d'inizio: le banche. Che nel frattempo sono diventate più spregiudicate. Se all'inizio di tutto la bancarotta Lehman Brothers aveva dimostrato che il denaro pubblico è indispensabile al loro salvataggio, ora è scontato che le crisi si prevengono con il sacrificio dei contribuenti Ue. Ma le banche non incassano sostanzosi interessi proprio per garantirsi nel caso un debitore non sia in grado di pagare?
Gli economisti si infuriano. Hans Werner Sinn, direttore dell'Ifo-Institut di Monaco, vede “un asse tra Ue e banche tedesche che spinge per l'approvazione del pacchetto di aiuti all'Irlanda”. Ma Sinn è sicuro che l'Irlanda possa farne a meno. Il pil pro capite è del 20 per cento superiore a quello tedesco, e l'indebitamento sarebbe gestibile anche se dovesse aumentare ancora. “L'Irlanda non è in bancarotta”. Eppure le banche drammatizzano la crisi per ottenere l'effetto politico desiderato. “È sempre il solito gioco, ora inizia a stancare”.
Ancora una volta le banche tedesche fiutano il malloppo. Se l'Ue concede denaro all'Irlanda, questo sarà sicuramente investito in tutta Europa – ovvero, più affari per le banche.
La politica sta al gioco e tace sulle banche. Anche perché dopo la vicenda Hypo Real Estate il salvataggio delle banche non è troppo popolare. La solidarietà verso l'Irlanda si può vendere politicamente meglio di quella per Josef Ackermann. I banchieri attingono a piene mani a questa semantica della solidarietà. Parlano di reazioni a catena ed effetti domino che potrebbero fare seguito al crollo irlandese. E dipingono scenari catastrofici nel caso in cui le banche fossero obbligate a partecipare agli aiuti per l'Irlanda.
Stefan Homburg, economista dell'Università di Hannover, è convinto che i timori siano esagerati. “In gioco non c'è la sopravvivenza delle banche tedesche, piuttosto si vogliono evitare degli ammortamenti”. Secondo Homburg i banchieri sono di gran lunga più potenti dei politici – e più astuti.
Homburg ha escogitato un modo per rifarsi in quanto contribuente. Durante la crisi ha comprato azioni della Deutsche Bank. Ora a ogni salvataggio il loro valore aumenta. “I guadagni mi ripagano delle tasse in più che dovrò pagare per via del salvataggio delle banche”. (traduzione di Nicola Vincenzoni)
Lisa Nienhaus e Christian SiedenbiedelFrankfurter Allgemeine Sonntagszeitung (abstract), Francoforte






sabato 20 novembre 2010

How Facebook Messages Will Boost B2B Sales

How Facebook Messages Will Boost B2B Sales:
" Facebook's announcement of its Messages service is just the most prominent evidence of how electronic communications are changing in a fundamental way. And while Mark Zuckerberg said he got the idea from talking to teenagers, the shift has implications for business-to-business sales too.
In previous posts I've described how the web has transformed B2B selling. Buyers now have easy access to sales information, yet sellers can regain leverage in a variety of ways.
Facebook and other social media are a whole new ballgame. Salespeople tend to see social media as just another static channel — they'll typically use LinkedIn discussion boards as lead generators.
But social media are becoming dynamic arenas where you jockey against your competitors in real time. That's because the services are evolving toward smart sorting. Initially, this is all about giving priority to messages from close friends. Soon, though, these services will adjust your inbox according to how well the messages match your expressed interests.
The result will be a spam filter on steroids, one that focuses on the content of the message as much as the sender. Say an executive realizes her company needs to adopt RFID for its supply chain. She trolls the web, looking for what's available, and e-mails a few people in her network. Her smart messaging service will analyze the URLs she visits and the keywords in her e-mails. When she turns to her always crowded inbox, the first messages she sees will likely be those with text that's related to her recent activity. Mail that scores poorly will be buried and probably never read.
How can you work with this? If you sell supply chain management solutions and she visits your web site, you can track where she goes and get a sense of her interests. Or maybe you can find postings from her on a discussion board. Once you figure out her contact address, you'll want to customize a message so it goes to the top of her heap. Meanwhile, your competitor is sending her messages with a laundry list of supply chain management functions. If you can zero in on RFID, you'll be golden.
The process is similar to search engine optimization, except that you design messages rather than web sites, and you do it interactively. You'll need good content and good communication skills, and you'll need to move fast.
The payoff will be huge. As messaging services get smarter, people may trust them far more than they do now. If you shape your messages in ways that truly connect to where buyers have been, you'll jump right to their attention rather than having to fight through all the barriers that salespeople usually face. It won't matter so much who you are: The message becomes the messenger."


Steven Woods is the author of Digital Body Language: Deciphering Customer Intentions in an Online World and chief technology officer for Eloqua, a marketing automation company.


mercoledì 17 novembre 2010

Euro debole = illusione occupati

Euro debole = illusione occupati:
di Oscar Giannino ( Chicago Blog)
"L’Europa è di nuovo piegata su se stessa nel tentativo di evitare la crisi dell’eurodebito. In molti tra coloro che in Italia lavorano per l’export almeno si consolano, all’idea che l’euro si deprezzi riscendendo verso quota 1,3 sul dollaro invece che verso 1,5. In realtà, la gara a deprezzare le valute è la vera guerra in corso tra dollaro e yuan, e l’euro rischia di fare il vaso di coccio tra vasi di ferro. Detto questo, chi qui scrive trova invece apprezzabile che sempre più numerose voci europee si levino polemicamente rilevando che non rende un servizio a nessuno, la FED, artificiosamente deprimendo il corso del dollaro e i rendimenti decennali del debito pubblico americano, con la sua politica eterodossa di acquisiti di titoli sul mercato e cioè attraverso la monetizzazione del debito, come avveniva in Italia prima che via Nazionale e Tesoro divorziasssero, sancendo la piena autonomia della banca centrale dalle tendenze deficiste della politica. La vera risposta a chi consiglia sempre il deprezzamento della moneta per difendere l’occupazione sul mercato domestico sta proprio nell’andamento dell’economia americana.

E’ il nocciolo della politica praticata da Obama e Bernanke, secondo i quali un dollaro debole aiuta a ridurre la disoccupazione USA, che nel suo aggregato ristretto è al 9,6% e in quello allargato, comprendente cioè gli “scoraggiati” a diverso titolo, sale al 16% e oltre. Tuttavia, è un assunto fallace.

Nigel Gault, chief economist al desk americano di Global Insight, ha rielaborato la relazione tra andamento del dollaro e occupati nell’ultimo decennio. Dal 2001, il dollaro ha visto il suo valore deprezzarsi del 31% rispetto a un basket comprendente le cinque maggiori valute nel commercio mondiale. L’export americano negli stessi anni è aumentato del 45%. Ma l’occupazione manifatturiera americana è diminuita negli stessi anni di un terzo, scendendo da 16,4 a 11,7 milioni. Se ci fermiamo all’ultimo trimestre cioè agli effetti sul breve, da giugno a settembre il dollaro è sceso del 10% rispetto alle stesse valute, e l’export americano a settembre è salito dello 0,3%, al livello più alto nell’ultimo biennio. Ma la disoccupazione non diminuisce.

Per almeno due ordini di ragioni. La prima che l’export dei Paesi avanzati verso i Paesi che “tirano”, Cina e Asia innanzitutto, è soprattutto ad alto valore aggiunto, e dunque prodotta laddove macchine, automazione e tecnologie inevitabilmente continueranno a sostituire intensità di lavoro umano. La seconda ragione è che più aumenta l’export in quei Paesi più aumenta il totale di occupati delle imprese esportatrici in quei Paesi stessi: assai più che nei mercato domestici in cui le imprese esportatrici sono radicate. Secondo le cifre elaborate dall’United States Bureau of Economic Analysis il totale dei dipendenti all’estero delle aziende americane esportatrici è più che raddoppiato, negli anni 1998-2008 con l’ingresso della Cina nel WTO, passando da 5 a 10,5 milioni. Occupare dipendenti in Paesi a basso costo del lavoro aiuta a realizzare margini che son più che mai preziosi per investire di più nella qualità di innovazioni, processi e prodotti che vengono “pensati” e sperimentati nei paesi avanzati di provenienza. E più il processo diventa esteso e radicato, meno ovviamente sui bilanci aziendali incide il fattore valutario sulla competitività complessiva delle ragioni di scambio.

E’ esattamente lo stesso fenomeno avvenuto su scala europea per le grandi imprese tedesche delocalizzando nell’Est europeo non appartenente all’euro, a inizio degli anni 2000. Oggi come oggi, per BMW o Mercedes e Audi che hanno triplicato la loro produzione locale in Cina, il fattore cambio dell’euro è praticamente del tutto indifferente rispetto agli enormi margini che realizzano con oltre 500mila vetture di classe elevata vendute su quel mercato nel 2010.

Se tutto ciò è vero per l’economia USA, dove il 65% della crescita viene dalla domanda interna e solo un terzo dall’export, è a maggior ragione vero per noi, dove avviene l’esatto opposto. Chi si augura un euro debole per esportare meglio ha ragione nel breve, basta che sia chiaro che con l’occupazione l’effetto cambio c’entra poco o nulla: per quella serve essere più produttivi, non artifici monetari che nel mondo globalizzato servono più che altro da maschere agli alti debiti pubblici dei governi. Maschere che del resto non reggono più, in America come in Europa."

L’auto europea drogata e Fiat

L’auto europea drogata e Fiat:
di
"Sono arrivati i dati dell’andamento del mercato auto in Europa e sono tragici. I sussidi dei vari Governi europei dati nel 2009 hanno drogato il mercato, con la sola conseguenza di anticipare la domanda e di provocare una caduta nel 2010. Le vendite nel mese di ottobre sono scese a poco più di un milione di vetture in tutta l’Unione Europea, con una contrazione di oltre il 16 per cento rispetto allo stesso mese del 2009. Il livello è più basso anche di quello registrato nel 2008, mese di crisi globale, dopo la caduta di Lehman Brothers. Sussidiare il mercato dell’auto con gli incentivi si è rivelata non solo una politica inefficace, ma soprattutto dannosa. Nel settore auto motive servono interventi strutturali, non le solite politiche di breve termine. La dimostrazione arriva non solo dall’Italia, dove la caduta nel mese di ottobre è stata del 28,8 per cento, con una forte crisi di Fiat, ma soprattutto dalla Germania guidata dalla Cancelliera Angela Merkel.

Nel corso del 2009, anno nel quale si sono svolte le elezioni (27 di settembre), la Germania ha attuato una politica d’incentivi all’acquisto molto aggressiva. I sussidi sono terminati appena concluse le elezioni e la conseguenza è stata quella di una caduta del mercato. Dall’inizio del 2010 le vendite sono calate del 26,8 per cento.

La crisi post-incentivi o da “mercato drogato” colpisce maggiormente quelle aziende che avevano beneficiato dei sussidi.

Le case automobilistiche concentrate sul segmento delle “piccole-medie” erano state quelle che più avevano incrementato le vendite perché proprio su questo segmento erano andati i maggiori incentivi. Fiat era una di queste.

L’azienda torinese, infatti, ha perso il 33 per cento a livello europeo nel mese di ottobre e la caduta delle immatricolazioni è stata di quasi il 17 per cento da inizio anno, a fronte della caduta del 5,5 per cento del mercato.

Se la Germania va male nel settore vendite, lo stesso non accade a livello produttivo, dove continua a correre la produzione. Come è possibile?

Nel paese teutonico sono state prodotte quasi il doppio delle auto che sono state vendute lo scorso anno. Il vantaggio tedesco non deriva certo da un costo del lavoro basso, quanto dalla specializzazione e da un sistema che invoglia gli investimenti.

Un tasso di burocrazia molto meno elevato rispetto all’Italia, una flessibilità nei contratti di lavoro che permette maggiore efficienza e una tassazione effettiva per le imprese meno bassa (Dati World Bank 2010) aiutano lo sviluppo di impianti di produzione in Germania.

Un altro fattore chiave è il mercato. Le aziende producono molto spesso laddove vi è un mercato importante.

Perché le aziende tedesche sono andate a produrre in Cina? Per abbassare il costo del lavoro? La motivazione principale della produzione di Volkswagen in Cina è dipendente dall’importanza del mercato cinese. La casa automobilistica tedesca vende ormai in Cina il 75 per cento del numero di veicoli venduti in tutta Europa e quasi il doppio di quando ne venda in Germania.

Cosa puó imparare l’Italia e la sua classe governante?

In primo luogo che gli incentivi drogano un mercato, ma non servono a nulla nel medio-lungo periodo. Anzi aggravano la crisi.

In secondo luogo che i Governi, invece di puntare sulla solita politica dei sussidi, dovrebbe concentrarsi sui problemi reali dell’Italia.

Nessun governante non ha mai visto che l’unico produttore in Italia si chiama Fiat e che nessuna casa automobilistica estera viene nel nostro Paese?

Affrontare i problemi di un costo del lavoro elevato a causa di una tassazione esagerata, di un’eccessiva burocratizzazione, di contratti troppo poco flessibili farebbero cambiare l’Italia.

Sergio Marchionne sta combattendo sull’ultimo punto contro la Fiom, ma sugli altri punti solo il Governo può agire."

Debito, Irlanda e quattro lezioni

Debito, Irlanda e quattro lezioni:

" Ho vinto una scommessa che avrei voluto perdere. Su Panorama la settimana scorsa ho lanciato un appello alla politica italiana, perché nella crisi non si faccia prendere la mano dall’irresponsabilità e tenga bene a mente il debito pubblico italiano (non casualmente, visto il contatore del terrore cioè del debito pubblico che qui pubblichiamo). Apposta, però, su Panorama ho moltiplicato per dieci la cifra, nella convinzione che, abituati come siamo a considerare il debito come una percentuale del Pil, nessuno faccia caso davvero al suo vero ammontare. Come purtroppo temevo, nessuno se n’è accorto. I casi sono due. O nessuno mi legge, e allora il direttore fa bene ad additarmi la porta. Oppure vuol dire che davvero siamo in pochissimi, ad avere idea che il debito pubblico italiano ammonta – ora che sono le 12,30 di mercoledì 17 novembre 2010 – a oltre 1.857 miliardi di euro. E che ogni secondo aumenta di oltre 2300 euro, 150 mila al minuto, quasi 9 milioni di euro l’ora, oltre 200 milioni di euro ogni giorno che Dio manda in terra.

Sarà bene che la politica italiana e soprattutto le opposizioni vecchie, nuove e nuovissime la ricordino bene, questa cifra. Che la aggiornino costantemente. Nelle prossime settimane e mesi di instabilità ogni fesseria sulla finanza pubblica italiana può trascinarci dritti dritti nella crisi dell’eurodebito. Dove grazie alla tanto criticata lesina del governo siamo riusciti ad evitare di trovarci in compagnia di Grecia ieri, Irlanda e Portogallo oggi.Anche se poi lam lesuinma e basta nopn ha compiuto alcuna scelta tra quelle prioritarie, che servivano al’Italia per crescere, scelta che avrebbe implicato scontentare alcuni tagliando enegicamente spesa loro riservata, per concentrarsi su altro.

E’ il caso chen i ferventi architetti di maggioranze e governi nuovi, e i teorici magari di sante alleanze tra opposti da Vendola a Fini, alzino lo sguardo dalle alchimie e dalle legittime ambizioni di ciascuno, per ricordare quattro semplici cose. La prima è che la Germania non fa sconti: sbaglia chi crede che la Merkel abbia parlato per incompetenza, quando ha chiesto che dal 2013 i Paesi dell’eurozona ad alto debito espongano chi ha comprato i loro titoli a rimetterci interessi e capitale. La Germania spinge così i mercati a credere che ci saranno due gironi nell’euro. Chi è rigoroso nei conti pubblici e produttivo nell’economia reale sta nel primo, chi no sta nel secondo e pagherà interessi altissimi. Se finiamo nel secondo girone siamo fritti. Ci bruciamo tutto il vantaggio dell’euro cioè pagare annualmente solo 4 punti di Pil di interessi sul debito, invece che 7, 8 o 9 come un tempo.

Secondo. L’Irlanda non è per niente pazza come in molti la dipingiono, a respingere gli aiuti “coatti” europei. Lo fa perché non tollera l’idea che Bruxelles imponga di alzare le tasse. Fossi irlandese la penserei anch’io così. Perché il futuro, come il passato, è di chi ha basse tasse e spesa pubblica. Anche se ha dovuto fare deficit pazzeschi per salvare le banche, non bisogna dimenticare che così sarà.

Terzo. Nella guerra tra dollaro e yuan, è l’euro a fare il vaso di coccio, ed è l’Europa a contare poco, tranne il ristretto girone tedesco, per altro alleato alla Cina. E’ lì che dobbiamo stare: non certo con le tasse patrimoniali che la sinistra ha in serbo se vince. Quarto. L’intero mondo avanzato compie oggi un enorme travaso di risorse verso chi oggi rappresenta il futuro, cioè l’Asia sinocentrica. Le masse gestite dai fondi di investimento europei dirette a quei Paesi emergenti ammontavano a 168 miliardi di € nel 2008, a 440 miliardi quest’anno. Il Financial Times ha stimato che toccheranno i 769 miliardi nel 2014. Più è alto il rischio di finire nel girone dantesco europeo se facciamo fesserie, più risorse perderemo per la crescita italiana. Dall’interno, perché scapperanno all’estero. E dall’estero, perché andranno altrove. "

Di Oscar Giannino (Chigago Blog)

lunedì 15 novembre 2010

La caduta di Dublino (press europ)

11 novembre 2010 EL PAÍS MADRID
"La pressione dei mercati sta spingendo l'Irlanda sull'orlo dell'abisso", titola El Paísdopo che il primo novembre il tasso dei bond decennali irlandesi è schizzato al 9,26 per cento. Mentre si diffondono le voci di un imminente piano di salvataggio economico per il paese, il quotidiano spagnolo sottolinea che in tal caso ci sarebbero conseguenze per i partner dell'eurozona. "L'Irlanda sta bruciando, e le economie più deboli dell'europa meridionale temono che le fiamme possano arrivare fino a loro". Il 10 novembre i bond spagnoli hanno raggiunto la quota del 4,52 per cento, mentre quelli greci e portoghesi sono arrivati rispettivamente all'11,65 e al 7,33 per cento. "Gli investitori hanno passato molte settimane a penalizzare tutto ciò che sapeva di periferia d'Europa", nota il quotidiano spagnolo, aggiungendo che "a peggiorare la situazione ieri la banca d'investimento Goldman Sachs ha richiesto un piano di salvataggio per Irlanda e Portogallo da parte del Fondo europeo di stabilità finanziaria".   Leggi intero articolo

Il rebus della diseguaglianza

15 novembre 2010 THE TIMES LONDRA
Il divario tra i guadagni dell'elite e quelli della classe media continua a crescere, minando gli stili di vita, la coesione sociale e la democrazia stessa. E a finire sotto accusa, paradossalmente, sono le politiche di redistribuzione a favore dei meno abbienti. Leggi intero articolo


domenica 14 novembre 2010

Tempesta sull’Atlantico | Presseurop – Italiano

Tempesta sull’Atlantico | Presseurop – Italiano: "L'UE nel mondo

L'UE nel mondo

Ue-Usa

Tempesta sull’Atlantico

11 novembre 2010 Il Sole-24 Ore Milano

Dopo l’iniziale armonia in risposta alla crisi, le politiche economiche di Stati Uniti e Unione europea si allontanano sempre più, producendo pericolosi squilibri tra euro e dollaro e minando la stabilità della ripresa. Al prossimo vertice Usa-Ue di Lisbona serve una svolta.

Alla seduta del G20 in programma a Seoul l'11 e 12 novembre, ma soprattutto al vertice Usa-Ue che si terrà a Lisbona il 20 novembre, le due sponde dell'Atlantico si troveranno ben più distanti rispetto a due anni fa. Se allora l'infuriare della crisi economica aveva spinto Europa e America a una risposta coordinata, oggi le loro politiche economiche e monetarie si allontanano sempre più.

"L'accordo tra Usa e Ue ha cominciato a deteriorarsi a fine 2009 e poi nel 2010", ricorda Carlo Bastasin sul Sole 24 Ore. "Al summit del G-20 di Toronto le posizioni sono apparse in tutta la loro distanza: gli europei chiedevano di avviare le strategie di uscita dalle politiche di stimolo, convinti che ulteriori deficit e liquidità avrebbero destabilizzato l'economia. Gli americani invece vedevano la crescita Usa in pericolo e chiedevano maggiore stimolo. Essendo nel 2010 il deficit Usa doppio di quello della Ue e lo squilibrio commerciale molto più grave, lo stimolo è stato affidato alla politica monetaria con rischi di incertezza per i mercati e per la crescita dell'area euro."

Se in certi casi politiche economiche diverse possono rivelarsi complementari, stavolta la mancanza di coordinamento sta avendo soprattutto effetti deleteri: in particolare la cospicua svalutazione del dollaro rispetto all'euro, che mette a rischio la ripresa europea e la stabilità americana.

"Al summit di Lisbona, Usa e Ue concorderanno sul rifiuto del protezionismo, si impegneranno ad abbassare le barriere agli scambi di tecnologia, in particolare a quelle ambientali, dichiareranno infine il comune impegno all'innovazione per la difesa dei posti di lavoro. Ma Usa ed Europa hanno bisogno anche di porre il tema del riequilibrio globale sul tavolo negoziale e per farlo credibilmente devono essere coerenti al loro interno. Finora i segnali non sono affatto quelli giusti", ammonisce Bastasin.

G20

L'Europa su uno strapuntino

Il G20 di Seoul “non è che una delle tante dimostrazioni dello spostamento del centro di gravità mondiale dallo scenario euro-atlantico alla regione trans-pacifica”, scrive la Frankfurter Allgemeine Zeitung mentre nella capitale sud-coreana si inaugura il summit dei paesi più industrializzati. Il quotidiano tedesco fa notare come siano stati gli europei stessi ad aver esercitato pressioni affinché l’istituzione che deve “facilitare” le politiche economiche internazionali includesse anche i paesi emergenti. Adesso, però, gli europei “si rendono conto che questi non sono così accomodanti né disponibili a condividere le responsabilità globali come avevano sperato”. Gli europei “faranno più fatica a creare coalizioni per difendere i loro interessi e ottenere consensi”. Si tratta di un compito tanto più difficile quanto più si considera che l’“Ue è sempre spaccata al proprio interno e ha un problema di rappresentanza”.

Un'altra conseguenza, osserva Slate.fr, è che l’Europa assiste impotente alla “guerra delle valute”. Le ragioni sono la scarsa flessibilità dei trattati e l'eccessiva rigidità della Bce, ma soprattutto "l'assenza di pensiero economico. Tutto ciò che si chiede a uno stato o a una banca centrale è di non fare niente quando le cose vanno bene e d'intervenire con forza quando vanno male. In questo schema, l'Europa è ancora più difficile da manovrare rispetto a uno stato nazionale, quindi è sempre troppo presente o troppo assente".

sabato 13 novembre 2010

Cina: Moody’s alza il rating (Finanza live)

Cina: Moody’s alza il rating:
A fronte di un outlook che resta positivo, l’Agenzia di rating Moody’s ha annunciato la revisione al rialzo del merito di credito della Cina citando sia l’attivo della bilancia dei pagamenti, sia il positivo andamento dell’economia. E così la Cina per Moody’s ha ora un rating sul merito di credito assegnato ai Paesi sovrani pari ad “A1″ rispetto al precedente rating di “Aa3″. La promozione di Moody’s arriva tra l’altro a ridosso del G20 dei capi di Stato e di Governo con Cina da un lato, e USA dall’altro, che puntano a rafforzare la propria cooperazione e ad allentare i toni, tutt’altro che morbidi spesso negli ultimi mesi, sullo yuan e sulla politica del Governo di Pechino fortemente incentrata sulle esportazioni.

© Fil for Finanza Live, 2010

Treni: Arenaways contro Fs, in Italia non c'e' libera concorrenza

 

Treni: Arenaways contro Fs, in Italia non c'e' libera concorrenza


Lunedi' al via sulla tratta Mi-To ma senza fermate intermedie (Il Sole 24 Ore Radiocor) - , 10 nov - Nonostante le pressioni del gestore pubblico, lunedi' prossimo Arenaways avviera' il primo servizio di trasporto passeggeri su rotaia gestito da un operatore privato. Cosi' l'amministratore delegato, Giuseppe Arena, durante la "itinerante" a bordo treno. Un documento inviato ieri sera dall'Ufficio per la Regolazione dei - sottolinea un comunicato - lo limita alle sole fermate di e Milano affinche', si legge, non vi sia "interferenza alcuna con i servizi per i quali e' previsto un contributo pubblico". La domanda sorge legittima: in Italia la libera concorrenza esiste? Ad sembra di no. In attesa di chiarire la situazione Arenaways comunque parte e si prepara a toccare, per il momento, i due capoluoghi di regione. Com-red- (RADIOCOR) 10-11-10 16:17:37 (0361) 5 NNNN



venerdì 12 novembre 2010

Panico nella zona euro | Presseurop – Italiano

Panico nella zona euro | Presseurop – Italiano: "

Panico nella zona euro

12 novembre 2010 Presseurop

Schrank (The Economist)
Era dalla crisi della Grecia nel 2009 che un paese Ue non era così esposto sui mercati. Mentre l'intervento europeo si fa più probabile, la stampa teme le possibili ripercussioni sull'intera unione monetaria.
"L'Irlanda va verso una nuova crisi finanziaria", annuncia la Frankfurter Rundschau. E ogni giorno il rischio rappresentato da ll'economia irlandese, indebolita dal debito e da tassi di interesse sempre più alti, sembra più grave per l'intera zona euro.
"Il ritornello del nuovo straziante atto della crisi dell'euro è stato annunciato da Wolfgang Schäuble", osserva la Berliner Zeitung. Il ministro delle finanze tedesco ha infatti chiesto che in futuro i possessori di obbligazioni si assumano le loro responsabilità quando uno stato membro dovrà essere salvato dagli altri. "Per gli investitori si tratta di qualcosa di nuovo", commenta il quotidiano. "Finora pensavano che la zona euro avrebbe ricomprato automaticamente il debito dei suoi membri. [...] Adesso si rendono conto di dover assumere un rischio e quindi chiedono interessi più elevati". Il giornale cita un membro del direttorio della Banca centrale europea, per il quale "i piani tedeschi portano inevitabilmente ad attacchi speculativi che rafforzano la crisi".Leggi intero articolo

mercoledì 10 novembre 2010

Wall to Wall: Kulture Vultures of the Cold War

Wall to Wall: Kulture Vultures of the Cold War: "


Randolph Bell, of Floating Films, created a video exclusively for WSJ. magazine chronicling the American Exposition and the Moscow Kitchen Debates.

girls_E_20090821125157.jpg




This summer marks the 50th anniversary of the American National Exhibition in Moscow, a golden moment in Cold War one-upsmanship and cultural thaw. Most people know about the so-called “Kitchen Debate,” the heated exchange between Vice President Richard Nixon and Soviet Premier Nikita Khrushchev that took place in a model kitchen on the opening day of the fair. But most don’t have a clue of where or why it happened.

The exhibition ran from July 25 to September 4 in Moscow’s Sokolniki Park and it was packed every day with more than 50,000 wide-eyed Russian citizens. Jack Masey of the USIA was in charge of design and construction and it was Masey who brought in some of America’s most radical and avant-garde talents, including Buckminster Fuller, who designed a soaring geodesic dome that stood as a kind of ceremonial gateway and logo to the fair. (It was a 200-foot Kaiser aluminum dome with a gold anodized surface.) Masey, who had a good deal of experience organizing international trade fairs, managed to quietly work around the more conservative idealogues within the Eisenhower administration who would have preferred tributes to Abraham Lincoln and John Deere tractors.

kitchen_E_20090821130011.jpg




George Nelson was invited to design the overall exhibition including the so-called “jungle gym,” an ingenious gridlike structure that served as a sprawling armature for all of the various products on display from high art to children’s toys and lady’s undergarments. (Plastic Tupperware bowls were given out as gifts—these were especially prized by Russian visitors to the fair.) It was all considered a soft but very real threat to Soviet security and was, in some ways, more dangerous than all those intercontinental missiles pointed at Moscow as the exhibition expressed the crazy variety, abundance and exuberance of the modern American marketplace. The fair was said to have been infiltrated by hundreds of KGB agents who were there to contain the brainwashing effects of American-style capitalism. (Many arrests were made for trumped-up and insignificant reasons.) Nelson also designed several freestanding clusters of fiber-glass parasols that served as protective canopies for a number of displays, including the daily fashion show that was particularly mobbed as young American volunteers paraded along the platforms modeling the latest sportswear fashions. There was also a beauty pavilion in which Russian women were able to get their hair, manicures and makeup done by Helena Rubenstein specialists. Rubenstein herself was on hand to show how to put it all together.

nixon_HV_20090821130118.jpg




An exhibition of new American painting created a great deal of friction and not just among Soviet critics who felt the work was appalling. There were ruffled feathers within the U.S. State Department among those who felt that America was being misrepresented by the paint splatters and colorful smears of Jackson Pollock, Willem De Kooning, Robert Motherwell, Mark Rothko and Philip Guston. They would have preferred Norman Rockwell’s depictions of wholesome American values. An outdoor sculpture garden also raised hackles with cutting-edge work by Alexander Calder, Isamu Noguchi, José De Rivera and Jacques Lipchitz. Two American architects, Peter Blake and Julian Neski, curated a selection of the best and boldest in new architecture with projects by Richard Neutra, Frank Lloyd Wright, Craig Ellwood, Ludwig Mies Van Der Rohe, Marcel Breuer, I.M. Pei and Eero Saarinen, among others. There was also a separate building on the fairgrounds that housed the “Family of Man” photography exhibition that had previously caused a sensation at the Museum of Modern Art in New York; perhaps the most radical display of all was “Glimpses of the U.S.A,” the multimedia extravaganza designed by Charles and Ray Eames that was mounted on giant screens hung from the ceiling of Bucky Fuller’s golden dome. The idea was to create a completely three-dimensional audiovisual immersion into the American way of life, depicting the country’s broad cultural mix and open-minded pluralism. The dome and the Eames’ screens were meant to constitute a kind of “information machine” and provide a subliminal introduction to the entire fair. It was a heady cross-fertilization of imagery projected onto seven 20-by-30-foot screens and depicting every aspect of a week in the life of America, including highways, factories, skyscrapers, supermarkets, suburban housing, etc. Many Soviet citizens were said to have been overwhelmed by the intoxicating effects of the dome and the multiple screens and some were even brought to tears when the screens’ final sequence showed a bunch of forget-me-not flowers, a universal symbol of friendship. (The musical score was composed by Elmer Bernstein.) It was an early foreshadowing of a whole multimedia culture that was yet to come.

Meanwhile, back in New York City, the Soviets were mounting their own version of a cultural trade fair at the old Convention Center on Columbus Circle. Dubbed the “Red Fair” by local newspapers, it included models of the Sputnik satellite and exhibits about nuclear icebreaker ships, displays about collective farming, Chaika car manufacturing, Soviet-made combine harvesters, medical research, radio telescopes, workers housing, etc., but had none of the sexy consumer-friendly buzz of the American Fair in Moscow.

readers_E_20090821130253.jpg




Alastair Gordon is a contributing editor for WSJ. magazine. For more Wall to Wall, read his review of the Frank Lloyd Wright show at the Guggenheim Museum, the Guggenheim’s “Design It” competition, Paul Rudolph: The Florida Houses, and An Ode to a Beach House.

For more from Alastair Gordon, read California Grass from WSJ.’s May issue.
"

Meglio la banda larga che il ponte sullo stretto (Wired Italia, Milano)

Meglio la banda larga che il ponte sullo stretto (Wired Italia, Milano): ""Sveglia Italia!", titola Wired Italia lanciando la sua campagna per l'estensione della banda larga a tutto il territorio nazionale. (News in brief : cover)"

lunedì 8 novembre 2010

The Business Of Magic: How the Disney marketing machine generates billion (Newsweek)







Bettmann-Corbis (2)
Photos: People Who Rebounded from Early Failure
Lions of Business Who Had Early Setbacks
Disney CEO Robert Iger likes to talk about the “Disney difference,” that special bit of magic that sets his company apart from other media conglomerates. The company enjoys “unrivaled” success in selling global franchises, he told shareholders in 2008. CEOs are wont to brag, but in this case Iger is stating facts. Disney has demonstrated a consistent ability to turn almost anything it touches into a cash machine, with Toy Story 3, this summer’s megahit, the latest example.
The go-to explanation for why the Disney empire is so successful—valued at $68 billion—is its intellectual property. No other company has such a stockpile of well-known, cute, family-friendly, and highly marketable characters. But analysts like to point out that it takes more than a stockpile to do what this giant has done. Hand each of the global media companies “an equivalent piece of content, [and] Disney would make the most money pound for pound,” says Anthony DiClemente, an analyst at Barclays Capital. The reason: Disney has had decades of solid experience in the logistics of how to make a product—whether it’s a TV series or an animated film—how to ship related merchandise, how to price said merchandise, and how to market all of the above, anywhere in the world. The result is a series of successful projects conceived, built, and sold through Disney’s various branches. Leggi articolo


domenica 7 novembre 2010

GLOBALIZZAZIONE IN RETROMARCIA. UN FUTURO SENZA PETROLIO

( traduzione articolo Zeitonline)

L'era del petrolio sta per finire. Questo è un bene per il mondo, dicono gli autori di due libri nuovi.
Fin dalla metà del 19 ° Secolo, le prime gocce sono state prelevate dal terreno, hanno portato il greggio, nello specifico il popolo del progresso industriale occidentale e la prosperità. Allo stesso tempo, ha spinto per la guerra, era il regime disumano in essere, favorendo la distruzione dell'ambiente. Il petrolio è sempre stato sia un lubrificante utile per crescita economica ma anche una merce sporca, il cui uso serve per scaldare la terra. Il petrolio è sempre stato sia una benedizione che una maledizione.
Jeff Rubin e Peter Maass pensano che sia giunto il momento della fine della dipendenza dell'uomo dal petrolio  Anche se con modi diversi, uno con la passione, la curiosità e la precisione di un reporter, l'altro l'analisi fredda degli economisti, l'americano ed il canadese arrivano alla stessa conclusione: che l'era del petrolio deve finire. Maass ritiene potremmo entrare nell'età delle energie rinnovabili , mentre Rubin prevede, in un pensiero audace, il venir meno della globalizzazione e prevede  cambiamenti di vasta portata dello stile di vita occidentale. "E 'il ritorno del regionale", scrive. "Immagina un mondo piu' piccolo."
Che il petrolio a giudizio di entrambi gli autori non ha futuro è dovuto prima di tutto alla sua scarsità. Anche prima della catastrofe nel Golfo del Messico si e' visto quanto difficile e pericoloso è diventato trovare nuove riserve petrolifere. Inoltre, le vecchie riserve tendono ad esaurirsi. Maass e  Rubin credono in un picco del petrolio, così l'ipotesi che la terra arrivi ad un picco del petrolio si sta verificando. In pochi anni fa le riserve del mondo tenderebbero ad esaurirsi
Chiunque abbia letto il libro si e' reso conto che la prospettiva associata alla diminuzione di importanza del business mondiale del petrolio sara' solo un bene. Il giornalista del New York Times Magazine ha fatto quattro anni di ricerca in tutto il mondo su questo e ha parlato con magnati del petrolio americano, politici russi, i lobbisti britannici, ambientalisti in Ecuador, i principi di Arabia Saudita e generali in Iraq. La fame insaziabile di petrolio in molti luoghi della terra provoca violenza e miseria.
Nella dilaniata guerra del Delta del Niger, l'americano ha trovato adolescenti armati e corruzione senza limiti.  In Iraq, Maass si meraviglia che i soldati americani stiano combattendo una guerra per il petrolio. in Russia, egli traccia il ruolo della materia prima nel crollo del comunismo, in Azerbaigian, ha osservato la lotta della società per nuove fonti. Arabia Saudita, infine, l'autore descrive come una nazione come nessun altro al mondo  che "ha saccheggiato la ricchezza e sperperato".
Maass scrive: "Il male è fatto da persone in giacca e cravatta che siedono in sale conferenze a prendere decisioni terribili".
Jeff Rubin scrive che l'impronta sociale ed ecologia del petrolio nella maggior parte dei paesi del mondo e' enorme. Ma Rubin non è arrabbiato, è sempre l'economista razionale. Egli dice al lettore che, attualmente, dal filetto di salmone al vapore nel ristorante al buon funzionamento del commercio mondiale tutto dipende dal fatto che il petrolio scorre facilmente - dalle sorgenti delle raffinerie fino a noi, i consumatori. Senza il liquido non si fa nulla . Cosa accadra' se saremo senza?
La maggiore efficienza non aiuta da sola, dice Rubin. La crescita economica, la crescente popolazione mondiale e il cambiamento tecnologico non sono sufficienti.... 
Anche l'energia verde non ha potuto colmare il divario, predice il canadese, il capo economista di una grande banca era ed è considerato uno dei maggiori esperti al mondo nel mercato petrolifero. Così il prezzo del petrolio arriva a circa 150 dollari al barile.
Il risultato e' che aumenterebbero i prezzi di altri beni. Più costoso sarebbe viaggiare, sarebbe più costoso  la carne il pesce o la plastica. Soprattutto, il costo dei trasporti avrebbe un impatto. Produttori a basso costo provenienti dall'Estremo Oriente avrebbero perso parte dei loro vantaggi competitivi di costo. "Un fornitore più conveniente", scrive l'autore, sarà in futuro solo il fornitore "nelle immediate vicinanze."
Questo di fatto segnerebbe la fine della globalizzazione. Gli schermi piatti, i mobili e tosaerba tornerebbero ad essere fabbricati in Europa o Nord America, ed il mercato dell'industria nazionale potrebbe rifiorire. Avrebbe un beneficio anche l'agricoltura locale. Ecco "Le forze della globalizzazione negli ultimi decenni, d'improvviso, evaporare" 
Rubin e Maass hanno scritto libri appassionati ed emozionanti. Ciò che conta adesso è che il loro messaggio venga ascoltato.


Peter Maass: Petrolio
La sanguinosa impresa; Droemer Verlag, 2010, 352 pagine, 19,95 €

Jeff Rubin: Perché il mondo diventa più piccolo
Hanser Verlag, 2010, 288, pag 19,90 €


Libera traduzione articolo Zeitonline sotto pubblicato
Fonte:
http://www.zeit.de/2010/45/Rezensionen-Oel?page=2





Cerca nel blog