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domenica 16 ottobre 2011

La democrazia è stanca (Presseurop)

14 ottobre 2011
Madrid
Roma, 14 ottobre. Manifestazione davanti alla Camera dei deputati.
Roma, 14 ottobre. Manifestazione davanti alla Camera dei deputati.
                                                            
La crisi ha mostrato i limiti della politica di fronte allo strapotere dell'economia e i movimenti popolari denunciano la distanza dei sistemi occidentali dai loro cittadini. Il modello rappresentativo non è più inattaccabile.
Con gli indignados di Wall Street, il malcontento popolare scatenato dalla crisi interessa ormai tutto lo spettro politico e geografico, dagli Stati Uniti alla Grecia. A prima vista si tratta di due casi ben distinti tra loro. Mentre la Grecia di Papandreou è in crisi a causa di uno stato clientelare e inefficiente che si è indebitato a più non posso, gli Stati Uniti di Obama sono vittima dei mercati finanziari che hanno portato l’economia al collasso. Per semplificare, potremmo parlare in un caso di un fallimento statale, nell’altro di un fallimento del mercato.. Leggi articolo

Pressurop - articolo El Pais

domenica 2 ottobre 2011

Default Italia? Tutto un bluff! ( abcrisparmio.it)

Davvero l’Italia rischia di fallire? Difficile. Lo sostiene in questa “Lettera” Giannina Puddu, presidentessa di Assofinance, associazione dei consulenti finanziari indipendenti. 

di Redazione ABCRisparmio 27 set 2011


Fonte: qn.quotidiano.net.

Link articolo
Credo che il rischio di default del nostro paese sia un bluff anche se bene organizzato e, pertanto, da tenere in grande considerazione per evitare che, alla fine, gli "organizzatori" raggiungano i loro fini. Ritengo si tratti di un bluff perchè la l'Italia è, ancora, una grande potenza economica.

Come uscirne?

Riportando la politica alla sua vera natura
: non può più essere considerata un business ma deve tornare ad essere rappresentanza del pubblico interesse. Deputati e Senatori della Repubblica italiana devono essere obbligati alla massima concentrazione sui loro compiti cessando qualunque altra attività; innanzi tutto deve essere cambiata la legge elettorale perchè, in queste condizioni, di fatto, la Democrazia non c'è.

E’ necessario reintrodurre la supremazia della Politica sulla finanza e sull'economia perchè la. Politica deve dettare le linee guida.

E’ necessario adeguare i costi della politica alla media europea eliminando, subito, gli sprechi a livello centrale e locale. Il debito pubblico italiano è esploso a causa della politica intesa come affare privato. Perchè, per esempio, la retribuzione del presidente della provincia di Bolzano aveva (nel 2007) un mensile pari a 25.600,00€ mentre, nello stesso periodo, il presidente francese Nicolas Sarkozy portava a casa 6.600,00€? (L'Europeo - n. 7 - luglio 2011). Perchè, verificato il costo "della macchina nel suo insieme", ogni deputato ci deve costare 95.772,00€ al mese? (Licenziare i Padreterni - Rizzoli 2011).

Nel nostro paese, l'antico motto: vizi privati e pubbliche virtù risulta capovolto: vizi pubblici e virtù private se è vero, come ricordo di aver letto, che, il patrimonio privato medio degli italiani è tra i più alti al mondo se non, addirittura, il più alto. Gli italiani agiscono da fenomeni nella gestione degli affari privati mentre appaiono scarsi nel governo della cosa pubblica.

Ecco, perchè, la soluzione dei problemi economici e finanziari dell'Italia è, innanzitutto, una questione politica. Qualunque altro approccio che volesse prescindere da questa consapevolezza sarebbe in malafede o, nella migliore delle ipotesi, ingenuo e quindi, comunque, inutile.

Il nostro compito urgente è la drastica riduzione delle spese pubbliche correnti; questo per placare l'ira dei mercati. Subito dopo, le riforme strutturali per adeguare il passo statale al passo delle imprese. Il punto è: chi ha un amore così grande e così palese per l'Italia tanto da essere così forte e così autorevole come necessario per "tagliare" tutti gli sprechi pubblici? Dove sono i Politici veri?

Quali uomini? Quali donne? Come li possiamo individuare? Estremamente difficile.

Eppure, mi è capitato di conoscere e interagire con parlamentari italiani di spessore, persone serie, affidabili. Ma, questi, solitamente, appaiono frustrati, schiacciati dalle macchine di partito perchè non allineati.

Forse, la nostra unica speranza, è riposta nelle loro mani; loro dovrebbero chiamarsi, contarsi e proporsi, fuori dai rispettivi gruppi di appartenenza, per salvare l'Italia.

Giannina Puddu

martedì 20 settembre 2011

S&P e l'Italia, i media tedeschi tagliano il rating di Berlusconi (Repubblica)

Le reazioni in Germania dopo la nota con cui Palazzo Chigi replica alla decisione dell'agenzia in merito al debito italiano. "A Berlusconi mancano giudizio e ragione". "Un duro colpo al suo governo". "La sua reazione è semplicemente quella di inveire"
S&P e l'Italia, i media tedeschi tagliano il rating di Berlusconi

BERLINO - Come Standard&Poor sottolinea 1, il problema dell'Italia è soprattutto politico, ma Berlusconi ancora una volta sembra non saper far nulla di meglio che inveire. Ecco in sostanza il giudizio a caldo dei massimi media tedeschi, appena uscito nelle loro edizioni online a commento del declassamento dell'Italia da parte della grande agenzia di rating internazionale e soprattutto delle reazioni del presidente del Consiglio. Un giudizio sparato in apertura o tra i primi titoli dei siti, che unisce trasversalmente media conservatori, liberal e progressisti, testate filogovernative o critiche verso l'esecutivo. E che fornisce una conferma drammatica del pessimo rating politico di Berlusconi agli occhi dell'establishment della prima potenza europea.

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Debito, S&P boccia (a sorpresa) l'Italia (Corriere della Sera)

Silvio Berlusconi. Quelle: AFP
MILANO - L'agenzia internazionale di rating Standard & Poor's ha annunciato, a sorpresa, la decisione di tagliare di un gradino, un «notch» in gergo, il voto sul debito pubblico italiano: il «rating» indica in sintesi la capacità di ripagare il debito pubblico da parte di un Paese. Standard and Poor's ha declassato il debito sovrano a breve e a lungo termine dell'Italia portandolo a «A» da «A+» e a «A-1» dal precedente «A-1+». Le prospettive future per l'Italia, spiega l'agenzia americana, sono per giunta «negative».

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lunedì 19 settembre 2011

La ricetta dell’Economist per la crisi

16 settembre 2011    
Presseurop
"Come salvare l'euro". In un articolo lungo e dettagliato, l'Economist spiega che "l'unico modo per arrestare la spirale della crisi è un atto estremo di volontà collettiva da parte dei governi dell'eurozona, per costruire una barriera finanziaria in grado di evitare altri danni e porre le basi di una più solida governance dell'euro".
Secondo il settimanale londinese è necessario "agire su quattro fronti. Primo, bisogna mettere in chiaro quali paesi europei sono ritenuti privi di liquidità e quali insolventi, per concedere un appoggio illimitato agli stati solvibili e ristrutturare il debito di quelli che non potranno mai ripagarlo. Secondo, bisogna proteggere le banche e assicurarsi che possano sopportare un default statale. Terzo, bisogna fare in modo che la politica macroeconomica dell'eurozona abbandoni l'ossessione dei tagli al bilancio e si concentri sulla crescita. Infine bisogna cominciare a costruire un nuovo sistema in grado di evitare che una crisi del genere possa ripresentarsi in futuro.
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mercoledì 14 settembre 2011

L’elefante Italia e il suo baldacchino (da CHICAGO BLOG)

di Ugo Arrigo

foto ITALIA
Prima della serie di manovre estive di finanza pubblica la nostra economia era nei guai, dopo lo è molto di più:

A seguito della crisi di fiducia sul debito pubblico il governo si è impegnato a conseguire il pareggio di bilancio nel 2013, colmando in un biennio circa quattro punti di Pil di disavanzo pubblico;

L’operazione si verifica quasi integralmente attraverso aumenti di tasse.

Conteggiando solo gli incrementi palesi delle imposte (e lasciando fuori gli aumenti dei tributi locali che saranno attuati per compensare i tagli nei trasferimenti dal governo centrale) la pressione fiscale, calcolata come rapporto tra il gettito atteso e il Pil, aumenterebbe di due punti percentuali.

Calcolata invece come rapporto tra il gettito atteso e il solo Pil emerso, che il Centro Studi Confindustria stima nell’80% del Pil totale, aumenterebbe di due punti percentuali e mezzo passando dal 53% al 55,5%.

Nessun paese al mondo ha una pressione fiscale così elevata, neppure i paesi scandinavi caratterizzati dai sistemi di welfare più estesi.

Le entrate totali del settore pubblico arriverebbero, secondo le stime di Tito Boeri, al 49% del Pil nel 2014. Se rapportate al solo Pil emerso arriverebbero invece al 61% (sempre ipotizzando, irrealisticamente, che gli enti territoriali facciano fronte ai tagli dal governo centrale senza alcun incremento dei tributi locali).

Non servono grandi riflessioni aggiuntive per dimostrare che si sta andando nella direzione opposta a quella corretta. Il nostro paese era all’ottavo posto per pressione fiscale tra i paesi dell’attuale UE all’inizio del decennio 2000. Da allora tutti gli altri sette la hanno ridotta, alcuni anche in misura consistente, e cinque di essi sono scesi sotto quella italiana (con le eccezioni di Danimarca e Svezia). Questo processo si è ovviamente accentuato nel periodo della recessione. L’Italia è invece l’unico paese ad aver accresciuto la pressione fiscale, sia prima che durante la recessione (e ora, grazie alla serie estiva di manovre, anche dopo).

da CHICAGO BLOG

di Ugo Arrigo


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martedì 30 agosto 2011

Lettera ad un Governo mai nato: manovra iniqua ed incostituzionale. BASTA

Andare in pensione prima, allungando la propria anzianità contributiva; pagare meno tasse; destinare il proprio denaro in uno strumento efficiente e competitivo con altre forme di risparmio forzoso.
Cosi' titolava il Sole 24 Ore in uno dei tanti articoli pubblicati il 15 Agosto 2011 in favore del Riscatto di Laurea.
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Il principio secondo il quale chi  pagava per poter vedere riconosciuti gli anni di laurea nell'idea di poter andare in pensione prima facendo cumulo sugli anni contributivi e' venuto meno. Non solo, questa norma , se fosse approvata, avrebbe effetto retroattivo. A chi mancavano ad esempio due anni di pensione a seguito  del riscatto, adesso andra' in pensione fra 7 anni.
Questa norma e' profondamente iniqua per i seguenti motivi:
- chi ha aderito al riscatto lo ha fatto sulla base delle norme vigenti nella consapevolezza che fosse una forma di risparmio alternativa con una certa ottica di investimento;
- se la stessa persona avesse saputo che la finalita' per la quale aveva aderito fosse venuta meno probabilmente avrebbe fatto una scelta un investimento alternativo;
- chi oggi paga si trova nell'incertezza se continuare a pagare INPS oppure no;

A questo punto dico basta. Mobilitiamoci in massa. Non paghiamo piu' un centesimo ad uno Stato incapace di governare, qualora queste norme inique e incostituzionali fossero approvate. Diciamo stop all'evasione. Fermiamo questo governo iniquo. Accettiamo una qualsiasi proposta anche di un gruppo di minoranza che sicuramente farebbe meno danni.

Basta ad i privilegi, basta a tartassare le future generazioni a causa di una precedente generazione incapace di pensare in modo strategico al futuro.

L'alternativa e' la lotta, la mobilitazione o cambiare paese.

Mi appello al Presidente della Repubblica. Fermiamo queste norme che fanno gli interessi di pochi. Guardiamo invece solo l'interesse generale del paese in cui amiamo vivere.


Staff finanza e dintorni

mercoledì 8 giugno 2011

Le Monde: Fukushima spinge Desertec (piu' grande progetto mai realizzato di energie alternative)

 8 giugno 2011 Le MondeParigi
La centrale solare di Aïn Ben Mathar (Marocco).
La centrale solare di Aïn Ben Mathar (Marocco).
 
L'ondata di sfiducia nell'energia atomica che attraversa l'Europa favorisce i progetti di sviluppo delle fonti alternative, come l'enorme rete promossa in Nord Africa da un consorzio tedesco.
Tra chi osserva con interesse le rivoluzioni arabe ci sono numerosi imprenditori e aziende tedesche. A partire dall’estate del 2009 molti di loro – gruppi finanziari come Deutsche Bank e industrie come E.on, Rwe o Siemens – hanno lanciato il consorzio Desertec per un progetto energetico particolarmente ambizioso: lo sfruttamento su grandissima scala dell’energia solare ed eolica nei deserti dell’Africa settentrionale per fornire ai paesi della regione, ma anche all’Europa, l’energia di cui avranno bisogno.
I numeri presentati in occasione del lancio dell’iniziativa sono enormi: si tratterebbe di coprire nel 2050 il fabbisogno di elettricità del vicino Oriente e del Nordafrica e assicurare almeno il 15 per cento di quello del vecchio continente. Il costo complessivo dell’investimento dovrebbe aggirarsi intorno ai 400 miliardi di euro, spalmati su quaranta anni.
Il consorzio Desertec Industrial Initiative (Dii), che ha sede a Monaco di Baviera ed è incaricato di creare entro la fine del 2012 le premesse tecniche, giuridiche ed economiche per concretizzare questo ambizioso piano, è tuttavia cauto e mette le mani avanti dicendo che secondo i suoi responsabili non si tratta di un grande progetto “da 400 miliardi”, ma di collegare tra loro numerosi progetti locali – una trentina circa. Per costruire una prima centrale solare da 500 megawatt è stato scelto il Marocco.

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domenica 17 aprile 2011

Portogallo: come direbbe Tony Soprano, watchyagonnado? ("come pensi di cavartela?"). Un'offerta che non si puo' rifiutare (Presseurop)

8 aprile 2011 The Guardian Londra
Un fotogramma de I Soprano (HBO, 1999-2007).
Un fotogramma de I Soprano (HBO, 1999-2007).
                
Ieri greci e irlandesi, oggi i portoghesi: i cittadini dei paesi europei oggetto degli interventi di Ue e Fmi scoprono a loro spese di aver accettato un abbraccio mortale.
Nella serie televisiva I Soprano c’è un episodio in cui il gangster Tony Soprano spiega a un insignificante giocatore d’azzardo che lo ha lasciato giocare e perdere alla grande perché “sapeva che lui non avrebbe potuto permetterselo, ma la moglie aveva un negozio di articoli sportivi”, che egli ha poi svuotato completamente, facendolo fallire.
I Soprano è disponibile anche in portoghese. I portoghesi potranno quindi scoprirvi molte più cose sul loro destino che non sui media che parlano di come il Portogallo sia l’ultima economia essere caduta nelle grinfie della Commissione europea e, probabilmente, dell’Fmi. Come possono testimoniare irlandesi e greci, è un abbraccio da vero gangster.
Il governo portoghese ha chiesto un prestito di emergenza di 80 miliardi di euro, in seguito a un’asta di titoli di stato che ha visto i tassi d'interesse raggiungere livelli esorbitanti. Ma a giudicare dall’esperienza di altre regioni europee, il tasso applicato dall’Ue non sarà inferiore a quello richiesto dai mercati.
I bailout di Irlanda e Grecia sono stati definiti un passo estremo ma necessario per mantenere la solvibilità dello stato. L’intento tuttavia è fallito. Entrambe queste economie hanno subito ulteriori declassamenti da parte delle agenzie internazionali di rating del credito da quando sono stati annunciati i bailout, e i mercati finanziari stanno ancora contemplando l’eventualità di un probabile default.
Il governo di Lisbona, come quelli di Atene e Dublino, probabilmente scoprirà di aver scambiato l’incerto e costoso debito del mercato finanziario con il certo ed esorbitante debito verso l’Ue e l'Fmi. Di conseguenza, lo stato sarà meno capace di ripagare l’indebitamento sul lungo periodo e di sostenere le spese connesse al debito sul breve.
Ma c’è di peggio: in cambio dei capitali per il salvataggio saranno richiesti ulteriori tagli alla spesa pubblica e nuove tasse per i contribuenti a basso e medio reddito, il che strangolerà l’attività economica, riducendo le entrate fiscali da cui dipendono le spese per il debito. La probabilità è quindi che il deficit aumenti, e altrettanto vale per il rischio di default. Al momento le entrate fiscali di greci e irlandesi sono in calo.
Si susseguono invece le notizie (puntualmente smentite a livello ufficiale) secondo cui il Fmi sta sollecitando un parziale default del debito greco. A prescindere dal fatto che tali notizie siano vere o meno, l’opinione comune – costituita nello specifico dall’Economist, dal Financial Times e da economisti di spicco come Joseph Stiglitz, Paul Krugman e Kenneth Rogoff – sta sollecitando un default parziale di Irlanda e Grecia semplicemente perché gli interessi sono ormai insostenibili.
La ragione per cui queste somme aumentano la probabilità di un default è che si tratta di bailout alla Tony Soprano: in pratica, nemmeno un centesimo va a finire nei paesi interessati, bensì dritto dritto ai creditori, cioè le banche europee e gli hedge fund statunitensi. Si tratta di una replica degli odiati bailout delle banche visti in tutto il mondo, questa volta però a livello internazionale. I contribuenti delle cosiddette economie “periferiche” stanno salvando le grandi banche europee. Anche le banche britanniche ne approfittano, in primis la Royal Bank of Scotland, di proprietà dello stato.

Periferici e dannati

La definizione “economie periferiche” è una delle etichette più garbate per designare i destinatari degli aiuti. Si dice che la classificazione avvenga sulla base dei livelli di indebitamento, ma non è così. Sia l’Italia che il Belgio hanno un rapporto tra indebitamento pubblico e Pil molto più alto di queste economie, a eccezione della Grecia. Né del resto è vero che siano tutte cronicamente predisposte ad alti deficit: Irlanda e Spagna prima della crisi avevano infatti notevoli eccedenze pubbliche.
In realtà è il settore bancario a determinare se un paese verrà a trovarsi sotto l'attacco dei mercati finanziari, delle agenzie di rating, dall’Ue e dalla Banca centrale europea. I dati forniti dalla Bank for International Settlement evidenziano che i valori patrimoniali netti del settore bancario di Germania, Paesi Bassi e Francia sono superiori ai duemila miliardi di dollari, mentre i paesi che si affacciano sul Mediterraneo hanno passività esterne di oltre 400 miliardi di dollari. L’Irlanda è passata da essere il tipico esempio di austerità al caso disperato dell’Ue solo quando alla fine del 2010 le sue banche si sono rivelate palesemente insolventi.
Anche la politica interna ha la sua fetta di responsabilità. La crisi ha colpito tutti i paesi, ma alcuni hanno saputo affrontarla meglio di altri, soprattutto grazie a un aumento della spesa pubblica che ha portato alla ripresa dell’economia. È stato l’iniziale indebolimento delle entrate fiscali a determinare la gravità della crisi. Se si dovessero riunire le economie europee a bassa fiscalità, in prima fila sederebbero Irlanda, Estonia, Slovacchia, Grecia, Spagna e Portogallo.
I loro speculatori nei settori bancario, imprenditoriale, edilizio e delle spedizioni hanno giocato d’azzardo e perso. Adesso sono arrivati i duri a privarli di ogni asset e a rifilare ai contribuenti ancora più debito. Come direbbe Tony Soprano, watchyagonnado? ("come pensi di cavartela?"). (traduzione di Anna Bissanti) Link Articolo - Presseurop

Islanda: uscire dalla crisi senza sudare (Presseurop)

8 aprile 2011 Mediapart Parigi
Reykjavik, aprile 2011.
Reykjavik, aprile 2011.
                 
Mentre sul continente i paesi indebitati si dannano tra sacrifici e rinunce, l'isola ha scelto un'altra strada: svalutazione, lunghi tempi di rientro e niente aiuti alle banche. Il referendum del 9 aprile dovrebbe confermare questa linea.
Mente nell'Europa continentale i paesi vittime della crisi del debito moltiplicano impopolari piani di austerity, l'Islanda, che ha scelto di lasciar fallire le banche, si rimette lentamente in carreggiata. Il 9 aprile, inoltre, gli islandesi avranno la possibilità di rifiutarsi di rimborsare i creditori internazionali della banca Icesave.
Una cattedrale di cemento nero e vetro ricoperta di alveoli rifrangenti in costruzione davanti al mare. Impossibile non notarla dalle strade di Reykjavik, tanto il cantiere è enorme rispetto a una città dall'architettura poco elevata. L'Harpa, nato dalla fantasia del celebre architetto danese Olafur Eliasson, sarà utilizzato come teatro dell'opera e sala congressi. Nonostante le voci che annunciavano la sospensione dei lavori, alla fine l'edificio sarà inaugurato il prossimo 4 maggio.
Dopo il crack bancario dell'isola nell'ottobre del 2008, il gruppo Portus, principale investitore di un progetto che in principio sarebbe dovuto costare 74 milioni di euro, è stato costretto a chiedere aiuto al governo e alla marina di Reykjavik per evitare che il cantiere si fermasse. L'esecutivo non si è tirato indietro, così questa gemma dell'architettura vedrà la luce del sole. Ma allora che fine ha fatto la crisi dell'Islanda?
Reykjavik, ancora scossa dallo scampato fallimento, non si è lanciata a capofitto nell'austerity. Contrariamente alle tendenze in voga nel continente, l'isola ha scelto di prendersi più tempo rispetto agli altri per portare a termine il risanamento del suo bilancio. Anche se alcuni progetti continuano ad andare avanti. I provvedimenti di risparmio puntano a portare il deficit al 10 per cento del pil in tre anni.
Niente a che vedere con un'altra isola, con la quale l'Islanda è spesso messa a confronto: l'Irlanda prevede di portare il proprio deficit dal 32 al 9 per cento nel corso del solo 2011. Oggi Reykjavik sostiene di aver riavviato la crescita economica (prevista al 3 per cento per l'anno in corso) e sta riducendo il debito senza forzare troppo la mano. Come ha fatto un'economia così minuscola (320mila abitanti) a rialzare la testa in appena due anni? Gli economisti avanzano tre diverse spiegazioni:
- La svalutazione della corona islandese. La valuta ha perso il 40 per cento a fine 2008, e le esportazioni di alluminio e pesce hanno ripreso slancio.
- Il principio del "too big to save" (troppo grosso per essere salvato). Si tratta dell'esatto opposto del "too big to fail" (troppo grosso per fallire) che ha prevalso finora negli Stati Uniti e in Europa, obbligando i governi a salvare le maggiori banche per evitare fallimenti a catena. In Islanda i bilanci delle tre principali banche dell'isola erano troppo grandi (fino a dieci volte il pil nel 2007) perché potessero essere salvate integralmente, e lo stato si è accontentato di riacquistare i conti "interni", vale a dire i prestiti ai privati e alle imprese dell'isola. Gli azionisti hanno dovuto assumersi il carico delle perdite sui conti stranieri, i più cospicui.
- Un ricorso all'austerity meno rigoroso che altrove, deciso in accordo con le parti sociali. Un patto di stabilità sociale è stato siglato nel 2009 per evitare le ripercussioni sulla società islandese.
Se la ripresa avanza, trainata dalle esportazioni di un'economia molto aperta, le famiglie indebitate sono ben lontane dal riprendere fiato. I consumi arrancano, e restano al 20 per cento in meno rispetto ai livelli precedenti la crisi. Il tasso di disoccupazione è nuovamente sceso al 7 per cento dopo aver toccato quota 9,7 per cento. A ogni modo niente di paragonabile a quanto avviene in Irlanda, dove i senza lavoro sono più del 14 per cento.

C'è chi sta peggio

Sigridur Gudmunsdottir fa parte delle migliaia di islandesi vittime di una crisi di cui non hanno colpa. Aveva un "lavoro del 2007", ovvero un impiego comodo e ben remunerato, specchio dell'euforia dei primi anni duemila. "Sentiamo dire che abbiamo festeggiato troppo, che abbiamo consumato troppo e chiesto troppi prestiti. Ma è falso: soltanto una piccola parte degli islandesi ne ha davvero approfittato", dice Sigridur.
Licenziata nel momento peggiore della recessione, a cinquant'anni Sigridur è tornata tra i banchi dell'università. "Questo mi permette di ricevere gli aiuti agli studenti, che sono più elevati dei sussidi di disoccupazione", spiega. Sigridur ha contratto nel 2006 un mutuo immobiliare da 68mila euro per acquistare una casa. In parte legato all'inflazione, il prestito è esploso dopo la crisi, arrivando a 86mila euro. Così alla fine di ogni mese la donna si è trovata sempre più in trappola: da una parte il volume del suo mutuo aumentava, dall'altra il valore reale della sua casa crollava.
Oggi Sigridur non sa ancora come riuscirà a tirarsi fuori dai debiti, ma non si lamenta. "Alcuni islandesi sono in una situazione molto peggiore. Tutti quelli che avevano contratto mutui in valuta estera sono davvero nei guai". In Islanda non ci si lamenta troppo. Dopo tutto la vita sulle isole è sempre stata dura. Partire come hanno fatto altri? "Impossibile, sono troppo legata alle mie radici". La ripresa dell'Islanda? "Chiedete per strada. Non ci crede nessuno."
Ascoltando le conversazioni a Reykjavik, appare evidente la spaccatura tra una classe politica convinta che la pagina della crisi sia stata voltata e i cittadini soffocati dal quasi fallimento dell'isola. Nell'Islanda del dopo crack si continua a parlare di pil e debito pubblico, che sembrano gli unici indicatori della politica attuale, qui come altrove in Europa. Ma dopo aver costretto alcune banche al fallimento e aver intrapreso la via dell'austerity "dolce", sarà meglio che Reykjavik si decida ad adottare strumenti e misure alternative per il bene della popolazione dell'isola. (traduzione di Andrea SparacinoFonte: Presseurop - link articolo

Sintesi del 2010: poveri e tartassati di Ugo Arrigo (CHICAGO BLOG)

Lo scorso primo marzo l’Istat ha comunicato i dati ufficiali sul Pil del 2010 e un preconsuntivo dei dati di finanza pubblica. In attesa del conto consolidato della P.A. per il IV trimestre 2010 e per l’intero anno, che sarà pubblicato lunedì 4 aprile, è tuttavia utile commentare due dati del 2010 i quali appaiono positivi a un primo esame e assai meno dal secondo in avanti. Uno di essi è la crescita del Pil reale: se è vero che il +1,3% dell’Italia è comunque distante dall’1,7% dell’euroarea, dall’1,8% dell’UE27 e dal 2,8% degli USA, esso è pur sempre maggiore di qualche decimo di punto di quanto ci aspettavamo sino a pochi mesi fa. La seconda notizia positiva è la riduzione della pressione fiscale: secondo l’Istat si sarebbe infatti attestata nel 2010 al 42,6%, mezzo punto al di sotto dell’anno prima.
Sin qui le buone notizie ma se leggiamo con attenzione il comunicato del primo marzo scopriamo subito che l’Istat ha rivisto al ribasso il Pil del 2009: non sarebbe stato pari a 1520,9 mld., come abbiamo sempre creduto, ma a 1519,7, quindi 1,2 mld. in meno. Questo implica che la caduta del Pil reale, avvenuta nel 2009, è stata del 5,2% e non del 5,0%, come ci era stato detto un anno fa. Alla fine della fiera la maggior crescita nel 2010 rispetto alle previsioni è esattamente controbilanciata dal maggior calo dell’anno prima e il Pil nominale 2010, pari a 1548,8 mld., è ancora 19 mld. al di sotto del Pil nominale 2008 che fu du 1567,8 mld.
Quanto alla pressione fiscale dobbiamo rallegrarci della riduzione 2010, conseguenza del venir meno dell’effetto al rialzo una tantum prodotto dallo scudo fiscale nel 2009, oppure rattristarci degli elevati livelli ai quali continua a collocarsi? Lo scorso dicembre l’Ocse ha idealmente assegnato al ministro Tremonti la medaglia di bronzo della più alta pressione fiscale tra i paesi industrializzati (e quindi del pianeta intero): solo Danimarca e Svezia nel 2009 hanno fatto meglio dell’Italia (peggio, ovviamente, secondo il nostro punto di vista), rispettivamente con il 48,2 e 46,4% del Pil. Si tratta di un risultato notevole per il nostro paese, conseguito in poco tempo, se si considera che solo nel 2005, quattro anni prima, i paesi Ocse con pressione fiscale superiore all’Italia erano addirittura sette: oltre a Danimarca e Svezia anche Belgio, Finlandia, Austria, Francia e Norvegia. Da allora tuttavia la pressione fiscale si è ridotta in ognuno di essi, compresi Danimarca e Svezia, mentre solo in Italia si è accresciuta.
Sin qui i dati ufficiali, tuttavia non dobbiamo scordarci che la pressione fiscale viene misurata mettendo a rapporto il gettito fiscale effettivo col Pil nominale, il quale rappresenta l’insieme degli imponibili delle differenti imposte. Ed è qui che casca il nostro asinello: il Pil nominale è lo somma di due componenti, il Pil emerso e il Pil sommerso, quest’ultimo derivante da attività economiche lecite ma che sfuggono all’ufficialità presumibilmente per non non dover pagare le tasse e non per la timidezza di carattere di chi le realizza. La pressione fiscale effettiva è dunque, correttamente, il rapporto tra gettito fiscale e Pil emerso: per il 2005 è il rapporto tra il 40,8%, pressione fiscale ufficiale secondo l’Ocse, e l’82,5%, corrispondente alla quota di Pil emerso in quell’anno secondo le stime dell’Istat. Il risultato è una pressione fiscale effettiva al 49,6% nel 2005 che già poneva l’Italia al secondo posto al mondo dopo il 50,4 della Danimarca e prima del 48,9 della Svezia. Per il 2009 non vi sono stime ufficiali sul peso del sommerso ma nello scorso autunno il Centro Studi Confindustria ha stimato che sia pervenuto al 20% del Pil totale, quota che porterebbe la pressione fiscale effettiva, calcolata secondo il metodo precedente, al 54%, sei punti sopra la Danimarca e sette sopra la Svezia! Il grafico sottostante evidenzia il riposizionamento dell’Italia nella hit parade della pressione fiscale: ITALY riporta i dati ufficiali Ocse, ITALY(*) quelli corretti per il sommerso (che ci danno diritto alla medaglia d’oro della più alta pressione fiscale planetaria).


Come possa crescere un sistema economico con questa pressione fiscale è un autentico mistero. E infatti, in attesa che qualche maghetto riesca a svelarlo, l’economia italiana non cresce proprio, come mostra il grafico sottostante nel quale è rappresenta l’evoluzione in termini reali del Pil in Italia e nell’UE a 27 paesi dal 1996 ad oggi. Posto per entrambi uguale a 100 il dato del 1996, nel 2007, anno precedente la recessione, esso si attestava a 134 per l’UE-27 e solo a 119 per l’Italia; nel 2010 il dato UE-27 è a 131, quello italiano solo a 113, appena un punto in più del 112 già raggiunto nel lontano 2001.

I dati precedenti testimoniano come la torta complessiva a disposizione degli italiani non sia cresciuta nel periodo compreso tra il 2001 e il 2010. Nel decennio i commensali sono tuttavia aumentati di numero e in conseguenza la fetta di torta a disposizione di ognuno si è ristretta. Il grafico sottostante evidenzia il Pil reale procapite dell’Italia nel periodo 2001-2010. Ponendo uguale a 100 il dato del 2001 si può osservare una sostanziale stazionarietà della grandezza già prima della recente recessione: nel 2005 il dato era a 99,9 e nel 2008, a recessione iniziata, ancora a 100. In sostanza la crisi ha travolto un’economia già immobile. Nel 2010 il Pil reale pro capite è stimabile a 95, il 5% in meno rispetto all’inizio del decennio.

Morale della favola: l’Italia soffre di un problema duale di eccessiva pressione fiscale e di assenza di crescita. Davvero pensiamo di uscirne assemblando imprenditori di stato per salvare compagnie di bandiera decotte, creando nuove banche di stato a mezzogiorno e nazionalizzando mucche a mezzanotte? LINK ARTICOLO

Se Gheddafi non c’è il petroliere balla? – di Emilio Rocca (Chicago Blog)

I petrolieri stanno approfittando della crisi libica? L’accusa di “speculare” sulla guerra circola fin da quando i prezzi del petrolio hanno preso il volo dopo lo scoppio delle ostilità, ed è stata rinfocolata dall’avvio di una indagine conoscitiva da parte dell’Antitrust sulla validità dell’indice Platts, che stima il prezzo di mercato della materia prima. Il Garante della concorrenza ha pure posto l’enfasi sugli strumenti utili a favorire la diffusione delle pompe bianche e della grande distribuzione. Dal canto loro, fin dai primi di marzo le associazioni dei consumatori chiedono un intervento del governo. Ma cosa dicono i dati?
Le accuse dei consumatori e i sospetti impliciti nell’indagine dell’Antitrust, si rivelano scarsamente fondati. Un primo modo per verificare l’ipotesi di scarsa concorrenzialità è osservare la variazione del margine lordo delle compagnie: davvero le rivolte in Libia sono state una scusa per fare extra-profitti? Possiamo calcolare il margine lordo come differenza tra il prezzo alla pompa e il costo della materia prima per produrre quel litro di benzina o gasolio. Seguendo la metodologia abituale, possiamo assumere che il costo della materia sia uguale alla quotazione Platt’s CIF Med, che rappresenta il costo per acquistare dei carburanti raffinati e averli consegnati in un porto del Mediterraneo. Il margine lordo comprende costi di stoccaggio e di distribuzione oltre al margine netto realizzato dalla compagnia e dal gestore dell’impianto.
Consideriamo allora l’accusa delle associazione dei consumatori, per cui i petrolieri avrebbero trovato nelle rivolte libiche un buon diversivo per fare maggiori profitti. Le prime manifestazioni registrate in Libia risalgono alla sera del 15 febbraio: quel giorno in Italia le compagnie petrolifere registravano un margine lordo di 15,6 centesimi per la benzina e di 13,9 centesimi per il gasolio. A distanza di un mese e mezzo, il 29 marzo questi valori erano, rispettivamente, 15 e 16,1 centesimi. In un mese e mezzo il margine lordo sulla benzina è diminuito di 0,6 centesimi, quello sul gasolio è aumentato di 2,2 centesimi. Ma prima trarre delle conclusioni affrettate è utile allargare il campo di attenzione e considerare le variazioni del margine lordo su un periodo più ampio. Se osserviamo il grafico del margine lordo che abbiamo calcolato da inizio 2010 ad oggi notiamo che il suo valore è tutt’altro che stabile. Dall’anno scorso ad oggi ha toccato massimi di 18 centesimi e minimi di 12 centesimi: un range considerevole. Quello che preme sottolineare è che, in questo periodo più ampio, il margine lordo è stato estremamente volatile, ma non ha manifestato alcun trend significativo.
Venendo al secondo sospetto, ci chiediamo se l’indice Platt’s sia un valido riferimento per le compagnie petrolifere nel decidere i prezzi. Teoricamente per essere un “buon” riferimento dovrebbe rispecchiare perfettamente le variazioni nelle quotazioni del greggio più quelle relative ai costi di raffinazione che possono risentire del mix di greggi effettivamente disponibile in un dato momento, oltre al rapporto tra la domanda attesa e la capacità effettivamente disponibile e le scorte. In tal caso ogni variazione nel prezzo dei carburanti raffinati sarebbe imputabile ad una variazione del prezzo della materia prima, il greggio appunto, e potremmo escludere l’ipotesi di comportamenti anticoncorrenziali delle compagnie e ad aumenti del loro margine.
Il grafico seguente mostra allora le variazioni tra prezzi della benzina alla pompa, la sua quotazione Platt’s e le variazioni di un litro di greggio. Quest’ultimo valore è un paniere dei principali quotazioni del greggio; inoltre viene espresso in euro per escludere qualsiasi effetto del mercato dei cambi sulle variazioni analizzate.
Consideriamo la relazione tra l’indice Platt’s e il greggio: se all’inizio il parallelismo è molto evidente, sembrerebbe poi essere molto più volatile del greggio. Di nuovo, espandendo il periodo di studio questo dubbio si indebolisce. Misurando la correlazione tra platts e greggio da inizio 2010 all’ultima settimana otteniamo un valore robusto, pari a 0,97. Questo prova che l’indice Platt’s segua bene le variazioni del prezzo del greggio e che aumenti nella quotazione della benzina raffinata siano imputabili per la maggior parte ad aumenti del prezzo del greggio.
Sembrerebbe più sospetta la relazione tra il prezzo della benzina alla pompa e l’indice Platt’s: in particolare si ha la netta sensazione che quando la quotazione sale il prezzo della benzina alla pompa lo segua fedelmente, mentre quanto scende il prezzo del carburante sia molto più rigido ad adattarsi. Confermerebbe dunque la voce popolare secondo cui, quando il prezzo del greggio aumenta la benzina rincara subito, mentre quanto diminuisce le compagnie aspettino a ridurre il prezzo del carburante e si arricchiscano. Prima di arrivare a questa conclusione proviamo però ad espandere di nuovo il campo di attenzione. Anche la correlazione tra Platt’s e prezzo alla pompa è robusta, pari a 0,96. Di fatto possiamo concludere che, sebbene negli ultimi giorni le variazioni siano state molto forti, nell’arco di quasi un anno e mezzo il prezzo della benzina in Italia ha rispecchiato fedelmente le variazioni delle quotazioni internazionali Platt’s. È possibile che i movimenti dei prezzi dei prodotti raffinati abbiano l’effetto di “smorzare” i cambiamenti: i petrolieri punterebbero, nel breve termine, a proteggere più i volumi che i margini nelle fasi di prezzi crescenti, per poi ricuperare i margini quando i prezzi internazionali si riducono.
La tabella seguente riassume i valori delle correlazioni calcolate tra il primo gennaio 2010 e il 29 marzo 2011.
CORRELAZIONE
Platt’s – prezzo benzina alla pompa
Platt’s – greggio
Margine lordo – Mix greggi €
0,957131948
0,976001671
0,068241101
L’ultima colonna mostra che la correlazione tra il margine lordo della vendita della benzina e il prezzo del greggio è pressoché inesistente. Ciò conferma un’intuizione teorica: non sarebbe molto tempestivo per le compagnie aumentare i propri margini quando il prezzo del petrolio sale. Non sarebbe tempestivo perché in tali circostanze hanno tutti gli occhi addosso: in questi giorni i politici e i media riservano grande attenzione all’argomento e sono tutti pronti ad accusare i petrolieri collusi e opportunisti. Peraltro, non sarebbe neppure particolarmente vantaggioso: si collude meglio quando i prezzi sono “bassi” così si aumentano i margini senza perdere volumi.
Tirando le fila del discorso, le accuse di scarsa concorrenzialità non reggono il confronto dei dati. Le compagnie petrolifere non hanno goduto margini maggiori approfittando della recente instabilità delle quotazioni del greggio e le loro procedure di pricing sono coerenti. Resta l’impressione un po’ amara che ancora una volta si reagisca al caro-benzina puntando il dito contro le compagnie petrolifere. Lo stereotipo vuole infatti questo settore manovrato da oligopolisti senza scrupoli e ciò giustifica l’attenzione pedante dell’Antitrust. Paradossalmente, la recente indagine dell’Autorità è iniziata proprio nella settimana in cui è diventato legge il decreto che finanzia il Fondo Unico per lo Spettacolo attraverso un aumento delle accise sui carburanti di “soli uno-due centesimi Link articolo - CHICAGO BLOG

giovedì 3 marzo 2011

La Fed: «Il rischio di uno choc petrolifero per l'economia è un'ipotesi realista» (corriere)


In Italia Benzina da 1,546 a 1,552 euro al litro, ma nel Sud anche a 1,587. Gasolio: 1,436-1,444


MILANO - I prezzi dei carburanti crescono a ritmo impressionante a seguito della crisi libica. E la Federal Reserve conferma: «Il rischio di uno choc petrolifero per l'economia è un'ipotesi realista».
LA SITUAZIONE IN ITALIA - Intanto Mentre il prezzo del petrolio Brent giovedì scende di 3 dollari barile fermandosi a 115,80 dollari, sul mercato italiano arriva una nuova fiammata dei prezzi dei carburanti. Le quotazioni internazionali di benzina e gasolio mercoledì sono salite di 20-30 dollari a tonnellata, tornando sopra i mille dollari a tonnellata per la prima volta dall'esate 2008. Ai distributori italiani, dopo l'aumento di mercoledì da parte di Eni ed Esso, il monitoraggio di Quotidiano Energia registra i rincari di Ip, Q8, Tamoil, TotalErg e ancora Esso.  Leggi intero articolo

sabato 26 febbraio 2011

L’Europa inventa la dottrina zero (Presseurop)


25 febbraio 2011 EL PAÍS MADRID

Nei momenti cruciali della storia, le grandi potenze elaborano delle linee guida per indirizzare la propria azione. Quella dell'Unione di fronte alle rivolte arabe sembra ispirata al vuoto assoluto.
Mentre i popoli della sponda meridionale del Mediterraneo lottano per riconquistare la propria dignità, noi europei dilapidiamo la nostra come se niente fosse. In politica estera il termine dottrina definisce l'intenzione di raggruppare sotto uno stesso principio di attuazione una serie di avvenimenti che presentano problematiche simili. Nel 1947 il presidente americano Harry Truman annunciava che il suo governo avrebbe sostenuto "i popoli liberi che resistono ai tentativi di soggiogamento da parte di minoranze armate o pressioni esterne".
Nel 1968 la dottrina Breznev consentiva all'Unione sovietica di intervenire militarmente per ripristinare l'ordine socialista nei paesi dell'Europa centro-orientale. Il sigillo alla conclusione delle guerra fredda arrivò nel 1989, quando il portavoce di Gorbaciov, interrogato a proposito della dottrina Breznev in relazione alle riforme democratiche in Ungheria e Polonia, rispose inaspettatamente dicendo che in primo luogo sarebbe stata valida la "dottrina Sinatra", alludendo alla canzone "My way" (A modo mio). Da quel momento nella regione si innescò un effetto domino democratizzatore.
Oggi l'Unione europea, anziché elaborare una dottrina per rispondere alle rivoluzioni arabe, avanza in punta di piedi in mezzo ai tumulti. La dottrina dell'Europa non ha un nome, a causa di una clamorosa mancanza di leadership a tutti i livelli: nelle capitali, dove i governanti si guardano l'un l'altro con la coda dell'occhio e nessuno vuole essere il primo a scommettere sul cambiamento; e a Bruxelles, dove neanche Catherine Ashton ha voluto prendersi alcun rischio. La crisi attuale avrebbe potuto essere per Ashton un'opportunità di reinventarsi, invece la baronessa ha accettato con totale sottomissione di essere un semplice portavoce di ciò che i ventisette decretano all'unanimità, per cui non ci sarà una "dottrina Ashton".
Inoltre la dottrina dell'Europa non ha neppure un contenuto, perché i nostri leader vogliono tutto in cambio di niente: protestare senza disturbare, influire senza ingerire, condannare senza sanzionare, aiutare senza rischiare, partecipare senza pagare. Come se non bastasse, continuando con l'atteggiamento ipocrita che hanno tenuto fino a questo momento, non cercano nemmeno di nascondere che ciò che li preoccupa realmente sono le questioni dell'immigrazione e delle forniture energetiche. Imitando il miracolo della coca cola senza zucchero né caffeina, l'Europa ha inaugurato la "dottrina zero": cambiamenti in cambio di niente.

La tesi di Gheddafi

Per mettere in piedi una dottrina si potrebbero utilizzare i principi esposti da Saif el Islam, l'inquietante figlio di Gheddafi, nella sua tesi di dottorato sostenuta nel 2007 alla London School of Economics con l'incredibile titolo "Il ruolo della società civile nella democratizzazione delle istituzioni della governance globale". Saif rievoca una distinzione fatta dal filosofo del diritto John Rawls: da un lato ci sono le società "bene ordinate", che pur non essendo del tutto democratiche sono pacifiche, i cui leader godono di una certa legittimità nei confronti dei cittadini e rispettano i diritti umani; dall'altro ci sono i regimi "fuorilegge" e le società "inique", che violano sistematicamente i diritti umani e che, di conseguenza, devono essere sottoposte a pressioni e sanzioni, negando loro aiuti di qualsiasi tipo e congelando i legami economici.  
Scrive Saif el Islam a pagina 236 della sua tesi (riferendosi all'islamismo radicale): "questa tesi dimostra la propria conformità con l'idea di Rawls secondo cui non bisogna lasciare che gli stati fuorilegge agiscano liberamente". E conclude a pagina 237: "l'isolamento e l'eventuale trasformazione forzata degli stati fuorilegge è di importanza vitale per la stabilità globale".
Dobbiamo dunque applicare i principi di Rawls (sostenuti già dalle Nazioni unite con il concetto di "responsabilità di proteggere") e fare una distinzione chiara tra coloro che in questi giorni fanno ricorso alla violenza contro la società e quelli che dialogano con l'opposizione. Anche se i ventisette sembrano non essersene ancora resi conto, gli eventi in Libia rappresentano un salto di qualità [nelle violenze] che dev'essere contrastato dal Consiglio di sicurezza dell'Onu con dure sanzioni, una zona di esclusione aerea, l'apertura immediata di un procedimento davanti alla Corte penale internazionale e il congelamento di tutti i beni all'estero della famiglia Gheddafi. La Libia è uno stato fuorilegge, quindi trattiamolo come tale. (traduzione di Andrea Sparacino)

sabato 22 gennaio 2011

Bankitalia, per l'Italia crescita fiacca L'occupazione «non riparte» (Corriere.it)


Via Nazionale incita a compiere «riforme strutturali»

La Banca d'Italia
La Banca d'Italia
MILANO - Una crescita del Pil dello 0,9%& nel 2011 e dell'1,1% nel 2012, con uno sviluppo dell'economia «fiacco» che non consente una decisa crescita dell'occupazione. E' quanto si legge nell'ultimo bollettino economico trimestrale della Banca d'Italia, in cui gli economisti dell'istituto di emissione mettono anche l'accento sull'urgenza di rimuovere gli ostacoli strutturali che impediscono all'Italia un pieno inserimento nella ripresa globale. Nel Bollettino si legge che l'economia italiana dovrebbe essere cresciuta dell'1% lo scorso anno contro una stima del governo dell' 1,2%. Per l'anno in corso il ritmo di aumento dovrebbe fermarsi allo 0,9% (contro l'1,3% stimato dal governo). Lo scostamento più alto rispetto alle previsioni governative si registra sul 2012 quando al +2% inserito dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti nell'ultimo documento di finanza pubblica si contrappone, secondo gli economisti della banca centrale, un +1,1%.
OCCUPAZIONE - Secondo gli economisti di Bankitalia il grado di sottoutilizzo del mercato del lavoro (che comprende le ore di cassa integrazione e i cosiddetti «scoraggiati») è superiore di due punti al tasso di disoccupazione rilevato dall'Istat. In altre parole, se alla percentuale di disoccupati, che secondo l'Istat è stata pari all'8,7% nel novembre 2010, si sommassero i lavoratori in cig e coloro che non cercano lavoro perchè disperano di trovarlo, il livello di disoccupati sfiorerebbe l'11%. Inoltre nel terzo trimestre 2010 coloro che cercano lavoro sono scesi dell'1,7% rispetto al periodo precedente, un «calo che ha interessato soprattutto i giovani e le persone in cerca di prima occupazione». Leggi intero articolo

sabato 8 gennaio 2011

Il gap dei tassi nel mondo è «oro» per gli speculatori. Tutti i rischi del «carry trade»

Il Sole 24 Ore - Fonte: Link articolo

Banca centrale cinese alza i tassi al 5,81%, mentre la Fed americana non sa più cosa fare per tenere bassi non solo quelli ufficiali (già ora a zero) ma anche quelli di mercato. La Banca centrale del Brasile ha fissato i tassi addirittura al 10,75%, mentre quella europea li tiene all'1%. Il problema è che queste differenze, causate dalla ripresa economica a marce alterne, sono la manna per gli speculatori: permettono infatti di prendere a prestito denari dove i tassi sono bassi e di re-investirli dove i tassi sono alti. Insomma: consentono agli speculatori di indebitarsi in Europa o in America per investire dove i ritorni sono più elevati.


Per esempio nei paesi emergenti. Morale: più Cina e Brasile alzano i tassi, più la speculazione trova pane per i suoi denti. Questo giochetto, chiamato "carry trade", nel 2010 ha raggiunto dimensioni record. Ora è un po' in calo, perché i bilanci sono chiusi in vista della fine dell'anno, ma nel 2011 è destinato a riprendere. Ma i rischi non mancano: il «carry trade» è causa infatti del forte afflusso di capitali nei paesi emergenti (aumentati del 42% dal 2008 al 2010) e dei rincari sulle materie prime. I mercati, insomma, scherzano col fuoco: i guadagni (per pochi) di oggi possono diventare macigni (per molti) domani.
Il carry trade
Il giochetto è semplice: basta prendere in prestito soldi dove il denaro costa poco. Qualche anno fa bisognava andare in Giappone, mentre ora c'è letteralmente l'imbarazzo della scelta: Giappone, Usa e Gran Bretagna hanno tutti tassi intorno allo zero, mentre l'area euro è all'1%. Ultimamente gli investitori preferiscono indebitarsi in Europa, perché temono che – causa Irlanda e Portogallo – l'euro sia destinato a restare debole. I dati ufficiali, quelli elaborati dal Cftc, lo dimostrano: dato che indebitarsi in euro per comprare titoli in altre valute significa vendere la moneta unica europea, le posizioni "corte" (cioè in vendita) sull'euro sono aumentate tra novembre e dicembre. All'ultima rilevazione, quella del 17 dicembre, i contratti in vendita risultavano 10.304 più di quelli in acquisto per un controvalore di circa 1,3 miliardi. Ma fino a poco tempo fa facevano lo stesso sul dollaro o su altre valute.
Una volta presi in prestito, i denari vengono investiti dove si spera di guadagnare tanto. Le destinazioni sono dunque molteplici. Si parte dai paesi emergenti. La Cina – dove i tassi sono in rialzo da tempo – secondo le stime del Institute of International Finance ha attirato nel 2010 ben 158,9 miliardi di dollari di capitali privati: il 9,7% in più rispetto al 2008. I flussi su Borse e bond del Brasile sono addirittura quasi quadruplicati a 124 miliardi. E, in generale, i paesi emergenti hanno attirato 825 miliardi di dollari nel 2010: il 42% in più rispetto al 2008. I soldi vanno inoltre sulle materie prime. E, ovviamente, anche in borsa.
Le conseguenze
Ciò che oggi ingrassa i bilanci di banche e fondi, domani può però diventare un boomerang. I rischi del carry trade sono infatti tanti. Innanzitutto le banche e gli investitori, quando si indebitano a tassi bassi, lo fanno con un effetto leva elevato per aumentare i guadagni: questo significa che il giorno in cui i mercati dovessero girare, migliaia di investitori dovrebbero chiudere le loro speculazioni in fretta e furia per non moltiplicare le perdite. E questo avrebbe pesanti conseguenze sia sui bilanci bancari, sia sui paesi "oggetto" di carry trade. Per questo il presidente della Fed Ben Bernanke da mesi chiede alle banche di ridurre il carry trade.
Ma i rischi sono anche altri. I flussi di capitali nei paesi emergenti stanno creando problemi – in maniera diversa – alle loro economie. Per questo alcuni stati, tra cui proprio Cina e Brasile, hanno deciso di alzare le barriere sui capitali esteri in ingresso. In questo modo cercano di arginare la corsa degli investitori esteri, che – se eccessiva – può far salire le valute e creare squilibri economici. Si arriva così al paradosso di paesi, come la Cina, che da un lato alzano i tassi d'interesse e dall'altro devono cercare escamotage per frenare l'afflusso di capitali in entrata

Piazza Affari, cosa accadra' nel 2011

Mia Economia


Immagine a corredo dell'articolo - Piazza Affari, cosa accadra' nel 2011 - miaeconomia.leonardo.it (31/12/2010)

L’ultima seduta di Piazza Affari, che si e’ chiusa con un ribasso dell’1,4%, e’ la fotografia del 2010 della Borsa di Milano. E’ stato un anno deludente per il listino italiano, che ha terminato con una perdita del 13,5% circa, penalizzato dalla sovrabbondanza dei titoli bancari presenti nella nostra Borsa e che e’ stato tra i settori maggiormente danneggiati dalle crisi finanziarie di Grecia in primavera e di Irlanda in autunno. Intesa Sanpaolo in un anno ha perso il 35%, Unicredit il 33%, Banco Popolare il 39% e Popolare di Milano oltre il 47%, solo per citare alcune delle maggiori banche in Italia.
Ma ci sono stati anche titoli tra le blue chip che hanno regalato rialzi quasi a tre cifre. E’ il caso del titolo Exor che in un anno ha guadagnato oltre l’80% sulla spinta dell’evoluzione societaria di Fiat che da gennaio si separera’ in due entita’, Fiat Industrial e Fiat Automotive. Da queste colonne avevamo attirato l’attenzione dei nostri lettori sul titolo, con una analisi, a marzo di quest’anno. Allora valeva 12 euro, ha chiuso l’anno a 24,6 euro. Chi avesse acquistato allora avrebbe guadagnato il 100%
Per Piazza Affari il prossimo anno, almeno nei primi mesi, non si discostera’ molto da quelli appena passati. Da un punto di vista grafico e’ chiarissimo come da sei mesi l’indice maggiore di Milano sia ingabbiato in un rettangolo compreso tra 19mila e 21.500 punti. Finche i prezzi non usciranno da questa fascia non ci saranno movimenti di rilievo ne’ in rialzo ne’ in ribasso. Analizzando i prezzi con un orizzonte temporale ancora piu’ breve si nota come da un mese il Mib si muova tra 20mila e 21mila punti. Anche in questo caso segnali di forza o di debolezza dell’indice arriveranno solo dalla violazione al rialzo o al ribasso di questi valori



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