Più che una
provocazione è stato squarciato il velo su quanto era già noto agli addetti ali
lavori. Per la Bce le imprese italiane sono a rischio
insolvenza. Mentre per Mediobanca, come
rilevato nella sua ultima indagine sull’attività di 2.023 imprese italiane (qui lo studio integrale ),
a un imprenditore converrebbe più investire su un Btp che nella propria
azienda.
Entrambe le
affermazioni non hanno stupito molto Giuseppe Bortolussi,
il segretario della Cgia di Mestre,
l’associazione degli artigiani veneta che sforna ogni mese interessanti
indagini sull’economia reale italiana. "Per la verità, non è nemmeno una
sorpresa vedere che gli unici settori a reggere il confronto con i Btp sono
quelli con un forte brand di made in Italy", spiega aPanorama.it.
Secondo
Mediobanca nel 2011 in media un’impresa rende 1,5 punti in meno rispetto ai
Btp. Ma le imprese con un forte brand legato al Made in Italy rendono 6 punti
percentuali in più. Come mai?
Potremmo
dire che l’Italia ha perso la tripla A, ma ne ha guadagnate quattro. Si tratta
dell’Alimentare (compreso il vino), dell’Arredamento, dell’Abbigliamento e
dell’Automazione. In una parola, è il made in Italy che è riuscito a imporsi su
scala globale (i dati di Mediobanca, infatti, indicano un aumento del giro
d’affari del 9,2%, grazie al balzo dell’export del 18,3%, ndr).
Dunque
è decisivo il settore in cui si opera?
Non sempre:
se guardiamo bene, scopriamo che oltre il 70% delle aziende operanti nelle
"quattro A" sono medio – piccole e operano in mercati di nicchia.
Probabilmente è anche la conferma che le dimensioni contenute non sono uno
svantaggio ma anzi in alcuni settori specifici possono essere un’arma vincente
nella competizione globale.
L’Italia
che resiste non è quella dei colossi, ma solo quella delle piccole e medie
imprese. È il trionfo del modello imprenditoriale veneto, non le pare?
Noi lo
diciamo da almeno 25 anni e potrei rispolverare dall’archivio pile di studi
scientifici in cui avevamo già dimostrato ciò che ieri ha ribadito l’indagine
di Mediobanca, e cioè che la redditività nelle medio piccole è molto più alta
nelle grandi, e quindi il capitale investito rende di più. E non solo. Le
ultime statistiche di Bruxelles ci dicono che negli ultimi dieci anni il 58%
dei nuovi posti di lavoro sono stati creati da realtà con un numero di
dipendenti inferiore alle 10 unità. E l’occupazione è tutto, perché l’economia
esiste per l’uomo, per creare posti di lavoro e non il contrario. Peccato che
dopo questi ultimi risultati, i decisori domani si dimenticheranno tutto.
Lo dice
con amarezza. Secondo lei, la politica, i sindacati, le associazioni di
categoria e anche i media sbagliano a dare un peso eccessivo a vicende come
quelle della Fiat, di Confindustria o al braccio di ferro sull’articolo 18?
L’Italia è
diventato un grande carro trascinato da piccoli buoi, che però rischiano di
morire asfissiati. Le piccole imprese sono sottorappresentate in ambito
politico e sindacale e non hanno personaggi di rilievo in grado di imporsi e di
sbattere i pugni sui tavoli che contano. Però, da sempre tutti dicono ai
piccoli e medi imprenditori cosa devono fare. Ma le pmi il loro dovere già lo
fanno. E lo fanno per giunta benissimo. Il problema è che operano in un Paese
su cui gravano quei problemi che già tutti conosciamo.
Ricordiamoli...
Per una
sentenza civile si aspetta in media dai 7 agli 11 anni, l’energia costa il 40%
in più rispetto al resto dell’Europa, abbiamo la maglia nera nei ritardi dei
pagamenti, per non parlare della pressione fiscale. Ma questi poi sarebbero
problemi minori.
Qual è
allora l’ostacolo principale che va rimosso per dare ancora più ossigeno alle
eccellenze del made in Italy?
Il mantra che ripetiamo per le pmi
italiane è la sottocapitalizzazione: senza fidi, le imprese rischiano di
chiudere. Le tasse, in verità, non sarebbero un problema, ma senza credito non
si pagano neppure quelle. Se uno ha il male a un ginocchio si cura, ma se
smette di bere acqua muore nel giro di pochi giorni. Ecco, alle pmi sta
cominciando a mancare l’acqua.